PARTE TERZA
I
Il principe Vasilij non meditava i suoi disegni. Men che meno pensava di nuocere agli altri per trarne profitto personale. Era soltanto un uomo di mondo, che aveva successo nell’alta società e a questo successo aveva fatto l’abitudine. A seconda delle circostanze e dei suoi rapporti col prossimo, nascevano in lui progetti e piani, di cui egli stesso non si rendeva pienamente conto, ma che costituivano l’interesse esclusivo della sua vita. Nella sua mente, questi progetti e piani in corso non erano mai solo uno o due, ma decine nello stesso tempo, e mentre alcuni cominciavano soltanto a balenargli, altri venivano attuati, altri ancora accantonati. Egli non si diceva, per esempio: «Quest’uomo adesso è sulla cresta dell’onda, devo conquistarmi la sua fiducia e la sua amicizia e attraverso di lui procurarmi la concessione di una sovvenzione straordinaria,» !e nemmeno: «Ecco, Pierre è ricco, devo indurlo a sposare mia figlia e a prestarmi i quarantamila rubli che mi servono;» ma nel momento stesso in cui incontrava un uomo in auge, l’istinto gli suggeriva che costui poteva essere utile, e lui alla prima occasione se lo faceva amico, senza deliberazione, per istinto.
Lo adulava, stabiliva un rapporto cordiale e alla fine gli parlava di ciò che gli stava a cuore.
A Mosca Pierre gli era sottomano, e il principe Vasilij trovò il modo di farlo nominare gentiluomo di camera, una qualifica che allora equivaleva al grado di consigliere di stato, e insistette affinché il giovane si recasse con lui a Pietroburgo, ospite a casa sua. Con modi in apparenza noncuranti, ma nello stesso tempo con l’assoluta certezza che così dovesse essere, il principe Vasilij fece tutto il possibile affinché Pierre sposasse sua figlia. Se il principe Vasilij avesse premeditato i suoi piani, non avrebbe potuto essere così naturale nel tratto, così semplice e familiare nei rapporti con tutti, fossero più in alto o più in basso di lui. Qualcosa lo attirava immancabilmente verso le persone più forti o più ricche, ed egli era dotato dell’arte rara di cogliere l’esatto momento in cui si deve e si può trar vantaggio dagli altri.
Pierre, divenuto inopinatamente il ricchissimo conte Bezuchov, dopo il recente periodo di solitudine e di spensieratezza si era trovato così occupato e a tal punto circondato di gente che soltanto quando si coricava riusciva a restare solo con se stesso. Doveva firmare carte, trattare con uffici pubblici di cui non capiva bene l’importanza, domandare sempre qualcosa al suo amministratore, recarsi nella sua tenuta presso Mosca e ricevere una quantità di persone che prima desideravano soltanto ignorare la sua esistenza e adesso si sarebbero sentite offese e amareggiate se egli avesse rifiutato di vederle. Tutti questi eterogenei personaggi - uomini d’affari, parenti, conoscenti - si mostravano in egual misura ben disposti e affettuosi con il giovane erede, e tutti erano convinti, nel modo più palese e indubitabile, delle alte qualità di Pierre. Egli si sentiva ripetere di continuo: «Con la vostra eccezionale bontà», oppure: «Con il vostro cuore così generoso», oppure: «Voi siete così perfetto, conte…» oppure: «Se quell’uomo avesse la vostra intelligenza», e così via; sicché Pierre cominciava davvero a credere nella propria eccezionale bontà e nella propria eccezionale intelligenza, tanto più che sempre, nel profondo dell’anima, gli era sembrato di essere realmente molto buono e molto intelligente. Perfino le persone che prima con lui si erano mostrate cattive e chiaramente ostili, adesso si erano fatte tenere e amorevoli. La principessina maggiore, così scontrosa, con la sua vita troppo lunga e i capelli tesi come quelli di una bambola, dopo i funerali era entrata nella camera di Pierre. Chinando gli occhi e arrossendo in continuazione, gli aveva dichiarato di essere molto dolente degli equivoci che erano sorti fra di loro, e che adesso non si sentiva in diritto di chieder nulla, tranne forse il permesso, dopo la sciagura che l’aveva abbattuta, di restare per qualche settimana ancora nella casa che amava tanto e dove aveva sopportato tanti sacrifici. A questo punto non aveva saputo trattenersi ed era scoppiata a piangere. Commosso dal fatto che quella donna simile a una statua avesse potuto trasformarsi a tal punto, Pierre la prese per mano e le chiese scusa, senza saperne nemmeno lui la ragione. Da quel giorno la principessina aveva cominciato a lavorare per Pierre a una sciarpa a righe e nei suoi confronti mutò completamente.
«Fallo per lei, mon cher. Nonostante tutto ha sopportato ogni sorta di cose da parte del defunto,» gli disse il principe Vasilij, dandogli da firmare una certa carta a vantaggio della principessina.
Il principe Vasilij aveva deciso che era necessario buttare quell’osso - un assegno di trentamila rubli - alla principessina, per dissuaderla dal diffondere la notizia della funzione che lui aveva avuto nella faccenda del portafoglio a mosaico. Pierre firmò l’assegno, e da quel giorno la principessina si mostrò con lui ancor più tenera. Anche le sorelle minori erano diventate affettuose; soprattutto la più giovane, quella graziosa, con il neo, spesso sconcertava Pierre con i suoi sorrisi e il turbamento che mostrava quando le accadeva di vederlo.
A Pierre sembrava naturale che tutti gli volessero bene; gli sarebbe parso così assurdo che qualcuno non gli volesse bene, che non poteva non credere nella sincerità delle persone dalle quali era circondato. E poi non aveva il tempo di porsi domande sulla sincerità o ipocrisia di quella gente. Non aveva mai tempo e si sentiva sempre in preda a uno stato di beatitudine e di ebbrezza. Si sentiva il perno di un movimento generale e importante; sentiva che da lui ci si attendeva sempre qualcosa; che, se non avesse fatto una certa cosa, avrebbe amareggiato molte persone e le avrebbe private di ciò che si aspettavano, mentre, se avesse fatto questa cosa o quest’altra, tutto sarebbe andato bene. Così faceva quello che gli veniva richiesto, ma quel certo «bene» quell’atteso soddisfacimento restava sempre di là da venire.
In questo primo periodo, degli affari di Pierre e della sua stessa persona s’impossessò più di ogni altro il principe Vasilij. Dal giorno della morte del vecchio conte Bezuchov egli non mollò più Pierre. Il principe Vasilij aveva l’atteggiamento di un uomo oberato dagli affari, stanco, sfinito, ma che per altruismo non poteva, insomma, abbandonare all’arbitrio della sorte e degli imbroglioni quel giovanotto inerme, figlio, après tout, d’un suo amico, e dotato di un così immenso patrimonio. Nei pochi giorni trascorsi a Mosca dopo la morte del conte Bezuchov, egli aveva spesso convocato Pierre o si era recato da lui di persona, e gli indicava quel che andava fatto in un tono di così annoiata sufficienza da parere che ogni volta dicesse: « Vous savez que je suis accablé d’affaires et que ce n’est que par pure charité, que je m’occupe de vous, et puis vous savez bien, que ce que je vous propose est la seule chose faisable.»
«Ebbene, mio caro, finalmente domani partiamo,» gli disse una volta, chiudendo gli occhi, e palpandogli con le dita il gomito, come se quello che diceva fosse stato deciso fra loro da un pezzo e non potesse essere altrimenti.
«Domani partiamo, ti do un posto nella mia carrozza. Sono molto contento. Qui, quel che c’era d’importante ormai è concluso, e io avrei già dovuto esser partito da un pezzo. Guarda, che cosa ho ricevuto dal cancelliere: gli avevo rivolto una preghiera per te, ed eccoti assunto nel corpo diplomatico e nominato gentiluomo di camera. Ora si è aperta la carriera diplomatica.»
Nonostante l’autorità del tono di stanchezza e di sussiego col quale erano state pronunciate queste parole, Pierre, che tanto a lungo aveva riflettuto alla sua carriera, avrebbe voluto replicare. Ma il principe Vasilij gli tolse la parola con quella sua tubante voce di basso che eliminava ogni possibilità d’interromperlo e alla quale faceva ricorso quando aveva bisogno di un mezzo estremo di persuasione.
« Mais, mon cher, l’ho fatto per me, per la mia coscienza; non c’è motivo di ringraziarmi. Nessuno a questo mondo s’è mai lagnato che gli volessero troppo bene. E poi tu sei libero, puoi piantar tutto, anche domani stesso. Ma vedrai da te, a Pietroburgo. È tempo, ormai, di allontanarti da questi orribili ricordi.» E il principe Vasilij sospirò. «Già, proprio così, mio caro. Il mio cameriere potrà viaggiare nella tua carrozza. Ah, stavo per dimenticarmene,» aggiunse ancora, «tu sai, mon cher, che c’erano dei conti in pendenza tra me e il defunto, così quello che ho riscosso dai possedimenti di Rjazan’ l’ho trattenuto. A te non serve. Faremo i conti dopo.»
Ciò che il principe Vasilij designava come «i possedimenti di Rjazan’», si traduceva in alcune migliaia di rubli di contributi annui che egli tratteneva per sé.
A Pietroburgo, esattamente come a Mosca, Pierre si trovò circondato da una turba di gente cordiale e premurosa. Egli non poté rifiutare il posto, o meglio il titolo (perché non aveva niente da fare) che gli aveva procurato il principe Vasilij; e le conoscenze, gli inviti, gli impegni sociali erano tanti che Pierre, ancor più che a Mosca, provava una sensazione d’annebbiamento, di frenesia, e di un bene sempre imminente ma che non giungeva mai.
Molti della sua vecchia compagnia di scapoli mancavano da Pietroburgo. La Guardia era partita per la guerra, Dolochov era stato degradato, Anatol’ era aggregato a un reggimento in provincia, il principe Andrej era all’estero; cosicché Pierre non poteva più trascorrere le sue notti come gli piaceva trascorrerle un tempo, né consolarsi di tanto in tanto conversando con un amico più anziano al quale portasse la sua stima. Tutto il suo tempo trascorreva in pranzi, in balli, e soprattutto in casa del principe Vasilij: in compagnia della grassa principessa sua moglie e della bellissima Hélène.
Anche Anna Pavlovna Šerer, come tutti gli altri, rivelava a Pierre il cambiamento avvenuto nei suoi confronti nell’opinione della società.
Prima, in presenza di Anna Pavlovna, Pierre sentiva sempre che quanto diceva riusciva sconveniente, goffo, inadatto alla circostanza; che quei discorsi, che gli parevano così intelligenti mentre li andava elaborando nella sua mente, diventavano stupidi non appena li proferiva ad alta voce, e che, al contrario, i più ottusi discorsi di Ippolit riuscivano graditi e accattivanti. Adesso, qualunque cosa dicesse, tutto riusciva charmant. Se anche Anna Pavlovna non lo diceva, egli tuttavia vedeva che avrebbe voluto dirlo e che si tratteneva soltanto per rispetto alla sua modestia.
Al principio dell’inverno 1805-1806 Pierre ricevette da Anna Pavlovna il solito biglietto rosa d’invito con l’aggiunta di queste parole: « Vous trouverez chez moi la belle Hélène, qu’on ne se lasse jamais de voir.»
Nel leggere queste righe, Pierre per la prima volta si rese conto che fra lui ed Hélène si era stabilito un certo legame, riconosciuto anche dagli altri, e questo pensiero da un lato lo spaventava, come se fosse un obbligo al quale non era in grado di assolvere, da un altro lo solleticava come un’ipotesi piacevole.
La serata da Anna Pavlovna fu identica alla prima; solo che, come primizia, questa volta Anna Pavlovna offrì ai suoi invitati, al posto di Mortemart, un diplomatico giunto da Berlino con gli ultimi particolari sul soggiorno dell’imperatore Alessandro a Potsdam e sul reciproco giuramento dei due sovrani amici di difendere, in forza di un’indissolubile alleanza, la giusta causa contro il nemico del genere umano. Pierre fu accolto da Anna Pavlovna con una sfumatura di tristezza, che evidentemente doveva riferirsi alla recente sventura che aveva colpito il giovane, ossia alla morte del conte Bezuchov (tutti consideravano sempre loro stretto dovere indurre Pierre a credersi molto afflitto per la morte di un padre che egli non aveva quasi conosciuto), - e di una tristezza del tutto simile a quella che ella esprimeva quando nominava l’augustissima imperatrice Mar’ja Fêdorovna. Pierre ne fu lusingato. Anna Pavlovna aveva disposto i piccoli gruppi del suo salotto con la consueta abilità. Il gruppo più numeroso, dove si trovavano il principe Vasilij e i generali, godeva della presenza del diplomatico. Un altro gruppo sedeva al tavolo del tè. Pierre avrebbe voluto unirsi al primo, ma Anna Pavlovna, che era nello stato di eccitazione di un condottiero sul campo di battaglia quando vengono mille nuove idee brillanti ma si stenta a metterle in pratica, vedendo Pierre lo toccò sulla manica con un dito.
« Attendez, j’ai des vues sur vous pour ce soir! » Gettò un’occhiata a Hélène e le sorrise.
« Ma bonne Hélène, il faut que vous soyez charitable pour ma pauvre tante, qui a une adoration pour vous.
Allez lui tenir compagnie pour dix minutes. E perché non abbiate ad annoiarvi troppo, eccovi il caro conte che non si rifiuterà di seguirvi.»
La bella si diresse verso la zietta, ma Pierre venne trattenuto ancora da Anna Pavlovna, che aveva l’aria di chi deve dare un’ultima disposizione.
«Non è affascinante, forse?» disse a Pierre, indicando quella maestosa beltà che si allontanava con mosse flessuose. « Et quelle tenue! E per una ragazza così giovane, che garbo, che nobiltà di tratto! Sono cose che vengono dal cuore! Fortunato l’uomo che la farà sua! Con lei anche il meno mondano dei mariti, senza volerlo si troverà ad occupare la più brillante posizione nel gran mondo. Non siete d’accordo? Volevo soltanto conoscere la vostra opinione.» E Anna Pavlovna lo lasciò libero.
Pierre era sincero rispondendo ad Anna Pavlovna che conveniva con lei circa il portamento e il tratto di Hélène. Se qualche volta gli accadeva di pensare ad Hélène, pensava appunto alla sua bellezza e a quella sua eccezionale, pacata tranquillità con la quale sapeva stare in società con dignitoso silenzio.
La zietta accolse nel suo angolo i due giovani; pareva voler nascondere la propria adorazione per Hélène e manifestare piuttosto un certo timore nei confronti di Anna Pavlovna. Sbirciava la nipote come per domandarle come dovesse comportarsi con quei due. Prima di allontanarsi da loro, Anna Pavlovna toccò di nuovo con un dito la manica di Pierre e disse:
« J’espère que vous ne direz plus qu’on s’ennuie chez moi,» e gettò un’occhiata a Hélène.
Hélène ebbe un sorriso che significava come per lei fosse inammissibile che qualcuno potesse guardarla senza restare incantato. La zietta tossì, inghiottì saliva e disse in francese che era molto contenta di vedere Hélène; poi si rivolse a Pierre con lo stesso complimento e con l’identica espressione. Nel mezzo della conversazione, noiosa e stentata, Hélène si volse verso Pierre e gli sorrise con quello splendido, limpido sorriso col quale sorrideva a tutti. Pierre era così assuefatto a questo sorriso, diceva così poco ai suoi occhi, che non vi fece alcun caso. In quel momento, la zietta stava parlando della collezione di tabacchiere che possedeva il defunto padre di Pierre, il conte Bezuchov, e mostrò la propria tabacchiera. Allora la principessina Hélène chiese di vedere il ritratto del marito della zietta, dipinto sul coperchio.
«Deve averlo fatto Vinesse,» disse Pierre, nominando il celebre miniaturista, e si chinò ad esaminare la tabacchiera, mentre porgeva l’orecchio alla conversazione che si svolgeva all’altro tavolo.
Si alzò per girare intorno al tavolo, ma la zietta gli porse la tabacchiera direttamente, da dietro le spalle di Hélène. Hélène si piegò in avanti per far posto e si guardò attorno sorridendo. Come sempre ai ricevimenti, portava un abito molto scollato sul seno e sulle spalle, secondo la moda di quel tempo. Il suo busto, che a Pierre era sempre apparso marmoreo, si trovava a una distanza così ravvicinata rispetto ai suoi occhi, che senza volerlo anche i suoi occhi miopi distinguevano la grazia viva delle spalle e del collo; ed era così vicino alle sue labbra che gli sarebbe bastato chinarsi appena per sfiorarlo. Percepiva il calore del corpo di lei, l’effluvio dei profumi e lo scricchiolio del corsetto quando lei si muoveva. Vedeva non già la sua marmorea bellezza, che faceva tutt’uno con l’abito; vedeva e sentiva tutto il fascino del corpo di lei, nascosto solo dall’abito. E avendolo visto una volta, non poté più vederla altrimenti, così come non si può più credere a un inganno quando questo è ormai svelato.
«Dunque fino ad ora non vi eravate accorto come sono bella?» sembrava dire Hélène. «Non vi eravate accorto che sono una donna? Sì, io sono una donna che può appartenere a chiunque; e anche a voi,» diceva il suo sguardo. E, nello stesso istante, Pierre sentì che Hélène non soltanto poteva, ma doveva diventare sua moglie; che non poteva essere diversamente.
In quell’istante lo seppe con la stessa sicurezza con cui l’avrebbe saputo se si fosse trovato con lei sotto il venèc. Come sarebbe successo e quando, non lo sapeva; non sapeva neppure se sarebbe stato bene (aveva persino la sensazione che, chissà perché, sarebbe stato male), ma sapeva che così sarebbe stato.
Pierre abbassò gli occhi, li alzò nuovamente e di nuovo avrebbe voluto guardarla come una bella donna, lontana, a lui del tutto estranea, come l’aveva guardata ogni giorno prima di quella sera. Ma ora non poteva più. Non ci riusciva, allo stesso modo che una persona che vede nella nebbia uno stelo di bur’jan e lo scambia per un albero, non può più, dopo essersi resa conto che si tratta di uno stelo, tornare a ravvisarvi un albero. Lei gli era terribilmente vicina.
Lei aveva già un potere su di lui. E fra lei e lui non si frapponeva alcun ostacolo, se non gli ostacoli della sua stessa volontà.
« Bon, je vous laisse dans votre peut coin. Je vois que vous y êtes très bien,» disse la voce di Anna Pavlovna.
E Pierre, cercando con terrore di ricordarsi se per caso non avesse fatto qualcosa di sconveniente, arrossì e si guardò in giro. Gli sembrava che tutti sapessero, come lui sapeva, ciò che gli era accaduto.
Dopo un po’ di tempo, quando si avvicinò al gruppo più numeroso, Anna Pavlovna gli disse:
« On dit que vous embellissez votre maison de Pétersbourg.» (Era la verità: l’architetto aveva detto ciò che era necessario fare, e Pierre, senza sapere nemmeno lui perché, aveva cominciato a restaurare la sua enorme casa di Pietroburgo.) « C’est bien, mais ne déménagez pas de chez le prince Basile. Il est bon d’avoir un ami comme le prince,»
disse lei sorridendo al principe Vasilij. « J’en sais quelque chose. N’est-ce pas? E poi voi siete ancora così giovane!
Avete bisogno di consigli. Non inquietatevi con me se approfitto dei miei diritti di vecchia.» Tacque come tutte le donne tacciono, aspettando un’obiezione, quando accennano alla loro età. «Se poi vi sposerete, sarà un’altra cosa.» E
fuse Pierre ed Hélène in un unico sguardo.
Pierre non guardò Hélène, né Hélène guardò Pierre. Ma lei gli era sempre terribilmente vicina. Egli farfugliò qualcosa e si fece rosso.
Tornato a casa, Pierre per un pezzo non riuscì ad addormentarsi, pensando a quello che gli era accaduto. Ma che cosa gli era accaduto? Nulla. Aveva semplicemente capito che una donna che egli aveva conosciuto bambina e della quale diceva distrattamente «Sì, è bella», ogni volta che qualcuno alludeva alla bellezza di Hélène, poteva appartenergli.
«Ma è una sciocca, l’ho sempre detto anch’io che è una sciocca,» pensava. «C’è qualcosa di abietto nel sentimento che ha suscitato in me, qualcosa di proibito. Mi hanno detto che suo fratello Anatol’ era innamorato di lei, e lei era innamorata di lui, che c’è stata tutta una losca storia e per questo hanno allontanato Anatol’. L’altro fratello è Ippolit… Suo padre è il principe Vasilij… No, tutto questo non va bene,» pensava. Ma mentre ragionava così (e questi ragionamenti restavano incompiuti), si sorprendeva a sorridere e si rendeva conto che un’altra serie di ragionamenti affiorava da sotto i primi, che egli considerava la vuotaggine di lei e al tempo stesso vagheggiava la possibilità che diventasse sua moglie, che lei potesse amarlo, che avrebbe potuto mutare; e parimenti pensava che il giudizio suo e di tanti altri sul suo conto potesse anche essere ingiusto. E di nuovo cessava di vederla come figlia del principe Vasilij, ma rivedeva tutto il suo corpo, nascosto soltanto dal suo abito da sera grigio. «Ma no, come mai prima di oggi non mi era mai venuto un pensiero simile?» E di nuovo si ripeteva che era una cosa impossibile, che in quel matrimonio c’era qualcosa di abietto, d’innaturale, di disonesto. Ricordava le parole e gli sguardi di lei di poco prima, le parole e gli sguardi di chi li aveva osservati insieme. Ricordava le parole e gli sguardi di Anna Pavlovna mentre gli parlava della sua casa; ricordava le innumerevoli allusioni del principe Vasilij e di tutti gli altri, e lo assaliva il terrore d’essersi forse già impegnato a compiere un’azione in cui evidentemente c’era il male e alla quale lui avrebbe dovuto rifiutarsi. Ma mentre Pierre arrivava a questa conclusione, da un’altro punto dell’anima emergeva l’immagine di lei in tutta la sua bellezza di donna.