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Si era svegliata per il suono di una sirena alcune ore prima, quando era ormai passata da un pezzo la mezzanotte, e aveva visto la luce blu diffondersi sotto forma di una serie di strisce in mezzo agli alberi degli orti. Si era avvolta nella giacca fatta a maglia ed era scesa di sotto. La nonna non era in casa e la porta della cucina non era chiusa a chiave. Doveva essere successo qualcosa di orribile, perché erano ormai trascorse più di due ore. La nonna non era rientrata e il suo cellulare era nella camera da letto. Elly aveva rimesso a posto le stoviglie e sistemato il caos sul bancone, per avere qualcosa con cui tenersi occupata. Si guardò riflessa nel rubinetto, il volto allungato e deformato, le lentiggini come tanti piccoli punti e virgole sugli zigomi. Senza fard era brutta.
Fuori non osava uscire. Stava succedendo qualcosa negli orti e forse c’entrava suo padre. Era accaduto qualcosa vicino allo spaventapasseri, era lì che si trovavano i lampeggianti blu.
Aveva ancora paura di quel fantoccio, le sembrava una creatura dotata di vita propria. Da piccola si immaginava di vederlo avanzare lungo il sentiero coperto d’erba fino alla casetta dove abitavano, con un’espressione malvagia negli occhi. Cercò di farci amicizia dandogli un nome, ma la nonna insisteva nel dire che si chiamava spaventapasseri e nient’altro.
Stava gelando, seduta nella cucina, sotto la luce troppo intensa della lampada del soffitto. In mezzo alle gambe nude sentiva una corrente d’aria fredda e le doleva lo stomaco. La seduta da Shai Timo le aveva infuso una specie di speranza, benché fosse stata lei a spingere Thona tanti anni prima. Ricordava un giorno d’autunno di quello stesso anno. La finestra della sua camera da letto, nella piccola casetta, aveva un paio di riquadri con i vetri colorati, attraverso i quali vedeva i passerotti trasformarsi in uccellini fatati dalle piume rosse. Gli occhiali che era stata costretta a portare per un periodo da bambina rimpicciolivano gli oggetti e tutto sembrava molto più lontano di quanto non fosse in realtà. A volte, mentre dormiva, brancolava nel buio, con le mani tese che ghermivano l’aria. A volte aveva la sensazione di una verità che era sul punto di afferrare, ma che le sfuggiva per una frazione di secondo.
Marian Dahle le telefonò nell’istante esatto in cui bussarono alla porta. Sbirciando dalla finestra, vide che erano due poliziotti. «Non ti preoccupare, apri pure», disse Marian. «Sono venuti per prendersi cura di te». Elly aprì la porta e li fece entrare, dopodiché Marian le chiese di mettersi seduta. «Ho qualcosa di molto particolare da raccontarti».
*
Tornata in macchina, Marian collegò il cavo al cruscotto e infilò l’altra estremità nel cellulare. Posizionò il telefono nel supporto e percorse Sophus Lies gate. Sentì il trillo di un messaggio in arrivo, che diceva che nessuna delle pattuglie era riuscita a trovare Glenn Haug. Al pensionato non c’era. Marian ripensò a Elly, anzi a Thona. Elly era Thona. Sulle prime era ammutolita, poi aveva domandato dov’era sua madre, dov’era Annie, e aveva chiesto di non aver più niente a che fare con la nonna. Marian le aveva promesso di trovare sua madre. E non aveva potuto fare a meno di commentare che Myrtel Haug era una bugiarda depravata e una manipolatrice che aveva fatto di tutto per proteggere il figlio. Avrebbe continuato a cambiare gli abiti a quello spaventapasseri in eterno. L’amore materno poteva rivelarsi pericoloso. Era quasi l’una e mezza. Birka era sdraiata sul sedile posteriore con la testa abbassata e ringhiava con fare sommesso, evidentemente conscia dello stress della padrona.
Marian svoltò in Bygdøy allé, compose il numero di Margrethe Moe, rallentò per lasciar passare un pedone che stava attraversando, lanciò un’occhiata nello specchietto retrovisore e vide il muso del cane sollevato, sempre con la testa rovesciata all’indietro, teso e con i denti digrignati. Avrebbe dovuto lasciarla a casa. Margrethe non rispondeva al telefono. Due colleghi si stavano occupando di Elly adesso. O di Thona. Marian se la rivide davanti e provò tenerezza. Pensandoci bene, aveva anche lei una piccola distesa di lentiggini sugli zigomi, come la madre.
Il semaforo divenne verde e lei spinse sull’acceleratore. Birka si era alzata a sedere e abbaiava dal profondo della gola. «Stai zitta, Birka!».
Si sentì invadere dallo stress. Chissà se Tønnesen aveva capito quello che lei aveva cercato di dirgli. Ora doveva pensare ad Annie. Non poteva succederle qualcosa proprio adesso, prima che potesse sapere che Thona era ancora viva. Sarebbe stato assurdo. L’intero caso, anzi tutti e due quei casi, erano allucinanti. Girò intorno alla rotatoria di Solli plass. Le tornò in mente Gudrun Johansen, la vera nonna di Thona, che viveva da sola nella casa di riposo Frognerhjemmet. «Volevo solo che non le mancasse niente», aveva detto. Thona doveva andare a farle visita.
Birka si riaccucciò in silenzio e in quello stesso istante Marian fu colta da una sensazione che le diede la pelle d’oca, un’impressione raggelante che le rimase addosso per un po’. Rifece il numero di Margrethe Moe, che questa volta rispose.
«Annie è scappata nel bosco», disse la donna attraverso una linea telefonica intermittente. «Si toglierà… la vita», continuò. «Mio fratello… la sta cercando. L’ho seguita quando è uscita dalla festa… perché aveva un’aria strana. E so che ha tendenze suicide, lo sanno tutti. L’ho portata a casa con me. Pensavo di farla… dormire qui. Che il Signore l’aiuti».
«Oh, mio Dio», esclamò Marian, ma ricordò subito quello che le aveva detto la guardia notturna a proposito della motocicletta e del furgone nero. «La polizia sta venendo lì», la avvisò, e chiuse la conversazione. Poi telefonò in questura e richiese l’intervento di alcune volanti.
Procedette rapida nel tunnel in direzione Gardermoen, oltrepassò Galgeberg e continuò verso Lillestrøm. Guidava a centoventi chilometri all’ora. Avrebbe dovuto dire a Margrethe che Thona non era morta, ma Margrethe Moe non poteva venirlo a sapere prima di Annie. Ripensò alla Bibbia e al foglietto. Margrethe aveva detto Che il Signore l’aiuti.
*
Margrethe era sul limitare del bosco, in cerca di Annie. Lì il cellulare non prendeva bene e aveva capito a malapena quello che aveva detto Marian Dahle. Dov’era Frank? Risalì correndo verso la casa, gli avrebbe telefonato da lì. Aveva bisogno di una mano, perché la polizia stava per arrivare.
*
Myrtel stava piangendo, scossa da forti singhiozzi senza lacrime. Tønnesen appariva calmo come al solito. «Ma come hai fatto a fare il lavaggio del cervello a Thona?»
«Thona venne chiusa a chiave nella stanza di sopra. Le dicemmo che se avesse urlato, sarebbe arrivata la polizia e l’avrebbe portata via, perché aveva spinto di sotto Elly. Lei diceva che non era vero, ma noi insistemmo che era stata lei. La polizia arrivò, ma non subito. Come ho detto, avemmo il tempo di portare il telone con Elly nella piccionaia. Tagliai i capelli a Thona e le misi un vestito blu. Elly era vestita di blu. E poi c’erano gli occhiali. Non aveva il coraggio di toglierseli, ma non ci vedeva niente con quelle lenti. Era praticamente paralizzata, com’è facile immaginare. La polizia voleva parlare con lei, ma lei non faceva che piangere. Era tutto un singhiozzare. Dissi che dovevano lasciare in pace la mia bambina, che era terrorizzata e ammalata. Poi le venne la febbre, scottava. La polizia si mise a cercare fuori e dissero che avrebbero portato via Elly per interrogarla più tardi. Insieme a me. In questura. Ma non è mai successo».
Myrtel Haug si accasciò leggermente su se stessa. «Mi viene da chiamarla Elly». Continuò a raccontare: «La verità può essere adattata, sai. Sta’ un po’ a sentire e vedrai che capirai subito come tutto tornava alla perfezione. Thona raccontava che aveva una nonna paterna che non aveva mai visto e che suo padre era in Australia. Così le dissi che ero io la nonna che non aveva mai visto e che il fatto che suo padre era in Australia era tutta una frottola. “Glenn è tuo padre”, le dissi. E poi le raccontati che sua madre era morta. Quella fu la parte peggiore. Che faccia fece la bambina! Thona avrebbe dovuto cominciare la scuola, aveva appena finito l’asilo. La mia Elly, invece, all’asilo non c’era mai andata. Ma dissi a Thona che a scuola le bambine cattive non le volevano e che quindi doveva aspettare un anno».
Farhi Salman bussò alla porta. Tønnesen gli fece cenno di andarsene. «E come hai fatto con il codice fiscale, il gruppo sanguigno e il dentista?»
«Non era mai stata dal dentista prima di cominciare la scuola. Del gruppo sanguigno non ne so niente. I controlli che fanno ai bambini nei consultori non valgono una cicca, non registrano nulla. Quando mangiò quella pianta velenosa le fecero l’esame del sangue al pronto soccorso. Avevo davvero paura, ma poi vidi che non avevano niente per fare un confronto. Quando la polizia mi diede il permesso di andare via per qualche giorno, andai a trovare mia sorella a Rælingen. Non vedeva Elly da quando era nella culla, perciò ci credette quando le dissi che Thona era Elly. Restammo un paio di settimane».
«Non capisco proprio come abbia potuto funzionare». Tønnesen scosse la testa. «E che mi dici della mamma, Annie? Sarà venuta agli orti di tanto in tanto, no? Avrebbe potuto vedere la figlia».
«Parlai con Annie negli orti la sera in cui la figlia sparì». Per un istante Myrtel assunse un’aria orgogliosa. «Mi disse che negli orti non ci avrebbe più messo piede. E così è stato. Tenni la bambina in casa per tutto l’autunno e l’inverno. Potevo farlo, perché la mia nipotina non doveva cominciare la scuola prima dell’anno dopo. Quando Thona iniziò ad andare a scuola, ormai era diventata Elly da tempo. Quando la prendemmo aveva il visto tondo, ma poi dimagrì. E i capelli chiari diventarono castani. I bambini cambiano».