34

Si allontanarono dalla casa in muratura nella notte più nera. Erano le due passate. Era già il 15 settembre, l’autunno si dispiegava ormai in tutta la sua pienezza sul paesaggio. Indossavano le tute di pelle e portavano i guanti. Nel retro del furgone giaceva il cadavere del portiere: Joner era morto sul trono. Ve lo avevano lasciato troppo a lungo e aveva perso un’enorme quantità di sangue. Tutto il pavimento intorno alla sedia era un’unica grande pozza. Alla fine penzolava in avanti con la testa tra le braccia.

Il fratello guidava. Il furgone scivolò lentamente sulla strada di ghiaia, per poi immettersi sulla via che scendeva verso Varåa. Non diceva una parola, le dita schiacciate stringevano il volante. Aveva farneticato, come succedeva spesso, e in quei casi era meglio tenere la bocca chiusa. Suo fratello era diventato sadico, come il loro padre. Bastava fare una ricerca su Google, per scoprire i tratti caratteristici di quel tipo di personalità: piacere per le sofferenze altrui, prevaricazione sessuale e senso di grandezza. E lui non lo negava, anche se non ne parlavano mai.

Il ciglio si allargava per qualche metro dal margine della strada, dove i lampioni si ergevano come riflettori in uno stadio. Da un lato c’era la foresta di abeti, dall’altro i prati si stendevano in tutta la loro ampiezza. D’estate i campi si spiegavano uno dopo l’altro come soffici tappeti ondeggianti lungo la strada stretta, pieni di grano e colza. Ora erano grigi e neri. Il pensiero che prima o poi sarebbe tornata l’estate era lontano.

La paura del Diavolo era instillata nel profondo delle loro anime. E non solo nelle loro. Da un nuovo sondaggio comparso sul «VG» risultava che il quindici percento della popolazione norvegese credeva nell’esistenza del Diavolo e nella possibilità di essere posseduti dal maligno. E forse era proprio vero: se uno credeva nel Signore delle Tenebre, allora lui poteva penetrargli nell’animo e portarlo alla perdizione. Bisognava restare vicini alle persone che si aveva il compito di proteggere. Nell’Apocalisse, capitolo due, versetto tredici, si leggeva: «So che abiti dove Satana ha il suo trono; tuttavia tu tieni saldo il mio nome e non hai rinnegato la mia fede neppure al tempo in cui Antìpa, il mio fedele testimone, fu messo a morte nella vostra città, dimora di Satana».

Lo dicevano le Scritture, e le Scritture dovevano essere rispettate, altrimenti tutto sarebbe andato in sfacelo. Al verso quattordici si leggeva: «Ma ho da rimproverarti alcune cose». E al versetto sedici: «Ravvediti dunque; altrimenti verrò presto da te e combatterò contro di loro con la spada della mia bocca». E al versetto diciassette: «Al vincitore darò una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve».

Ormai non poteva fare altro che aiutare il fratello. Era come una buona azione. Solo Dio era la luce, la mamma lo diceva tutti i giorni quando erano piccoli e aggiungeva che dovevano sostenersi a vicenda. Se solo il fratello avesse curato e tenuto più pulita quella sacca che aveva all’addome.

I morti erano pesanti e difficili da spostare. Avevano dovuto trascinare il portiere giù per le scale. Si erano formate delle tracce scure sul tappeto e una striscia rossa in un punto della carta da parati. Rex si era infilato in casa mentre trasportavano Joner al furgone, leccando avido il sangue, e il fratello aveva dovuto impiegare tutte le proprie forze per riuscire a trascinarlo di nuovo dabbasso.

Andreas da morto era altrettanto bello quanto da vivo. Su questo erano d’accordo entrambi. Il volto era grigio come la cenere, le labbra di un blu scuro; gli occhi semiaperti, con un mezzo cerchio scuro. L’iride si era spenta e il giovane corpo bianco si era irrigidito in un grazioso arco. Rex gli aveva sbranato il braccio quando lo avevano gettato in macchina. Quel cane non doveva mai essere lasciato libero dalla catena, avrebbe potuto avventarsi alla gola del primo malcapitato.

Joner non era affatto bello, sdraiato nel retro del furgone. Il suo cadavere aveva delle lesioni che avrebbero fatto impallidire la polizia. Era un desiderio del fratello, che questa volta il corpo venisse ritrovato. Era lui la mente dietro a tutto quanto. Niente sarebbe più stato come prima. Diceva che l’odio era sottovalutato, che le azioni malvagie potevano ristabilire la pace. E così sarebbe stato.

Non avevano parlato neppure mentre portavano via Andreas, avevano solo guidato fino a Maridalen, mantenendo una velocità costante, diretti verso un’area di sosta che conoscevano. Nel cielo sereno brillava la luna e non c’erano veicoli per strada. Erano rimasti per un attimo in ascolto prima di trascinarlo fuori dall’auto, ma non arrivava nessuno, allora si erano infilati i guanti e lo avevano trasportato lungo un sentiero nella foresta. La luce della luna creava delle brecce tra gli alberi. Conoscevano bene quel posto, ci erano venuti un’infinità di volte in bicicletta durante l’estate.

Avevano camminato in mezzo agli steli d’erba e alle ortiche appassite e, quando il sottobosco si era fatto più fitto, avevano trasportato Andreas reggendolo entrambi, per percorrere l’ultimo tratto fino al dirupo. Dal fondo giungeva il fragore violento del corso d’acqua. Avevano srotolato il tappeto e fatto scivolare il corpo giù nel letto del fiume. C’erano delle pietre, rotonde, più grosse e più piccole, lungo la riva, dove il cadavere si era arrestato. Lì non veniva mai nessuno. Ma con l’avanzare dell’autunno, quando il livello del fiume fosse salito, il corpo sarebbe stato portato via dall’acqua, giù, verso la città. E se l’acqua si fosse congelata, sarebbe stato spinto sotto il ghiaccio e trascinato via dalla corrente, arrivando fino al mare.

Il furgone si immise sulla statale 22 in direzione Lillestrøm. Poi raggiunsero l’autostrada e iniziarono a chiacchierare delle pulizie di casa. Avrebbero dovuto assumere una domestica. Quando tutto fosse finito, una volta rimosso il trono. L’idea iniziale era di bruciarlo, ma adesso il fratello accennò alla possibilità di creargli un luogo apposito nel bosco, di collocarlo nella foresta privo dello strumento di tortura, come se fosse stato una sedia qualsiasi. Se qualcuno l’avesse trovato, non avrebbe mai potuto immaginare per cosa fosse stato utilizzato. La pioggia lo avrebbe ripulito dal sangue.

Avrebbero dovuto liberarsi di Joner nello stesso modo in cui si erano sbarazzati di Andreas Lindeberg? Nascondere il cadavere. Ma il fratello voleva che il cadavere venisse ritrovato, che comparissero titoli a caratteri cubitali sui giornali. Vedere il caso sui media sarebbe stato uno stimolo. Glenn Haug era il prossimo della lista e doveva essere catturato subito dopo. Dovevano seguire un certo ordine, attenersi al piano. E poi la vita sarebbe dovuta proseguire, come prima. Anzi, non come prima: sarebbe ricominciata da capo, ripulita da ogni male.

Lungo il percorso si fermarono a una stazione di benzina, parcheggiarono nel buio, fuori dalla zona sorvegliata dalle telecamere, entrarono e comprarono un paio di bibite e qualche brioche. Tremavano entrambi per la carenza di zuccheri. All’interno la luce era così intensa da risultare quasi dolorosa.

Tornati al furgone, furono assaliti dai ricordi dell’infanzia. Spesso si separavano, ciascuno nel proprio territorio. La foresta era vasta. Sotto la scarpata dietro alla casa marrone, proprio giù in fondo, c’era uno stagno con delle rane e loro facevano a gara per catturarle. Morivano sempre tutte. E quando gareggiavano con le biciclette lungo la strada era sempre il fratello a vincere, altrimenti erano botte.

Quando passarono davanti alla vecchia sede del club di motociclisti di Dælenenga, una bassa costruzione in legno in uno spiazzo circondato da condomini anni Cinquanta, per un attimo intravidero la rotatoria di Carl Berners plass. Si infilarono in un parcheggio qualche centinaio di metri più avanti. Era il club di motociclisti di cui prima facevano parte, ma ormai le insegne erano state tolte e l’edificio era stato sgomberato da tempo. Non restava più traccia del vecchio club. Mettevano musica progressive. A ogni raduno si ritrovavano a sedere ai tavoli di formica e il jackpot aumentava di settimana in settimana, se nessuno vinceva. L’atmosfera era amichevole e tranquilla. Il premio poteva arrivare fino a un paio di migliaia di corone. Il fratello, con la sua fortuna sfacciata, aveva vinto diverse volte. Il nuovo club si trovava in un’altra zona della città. Adesso si riunivano una domenica al mese.

Il parcheggio era circondato da una ringhiera costruita con tubi in ferro. Ai pali erano appesi dei cestini della spazzatura. Tutto intorno si innalzavano fitti i palazzi anni Cinquanta in mattoni rossi, che ospitavano appartamenti forniti dal Comune a immigrati, alcolizzati e madri single: una zona residenziale come se ne vedevano tante nelle periferie delle grandi città. Accanto c’era una ruspa con dei pezzi d’asfalto nella benna. Quel posto non era sorvegliato, avevano già fatto le loro ricerche approfondite. Un movimento in un negozio di fronte li fece trasalire entrambi. Sembrava che dentro ci fossero persone che pulivano, ma con la luce accesa all’interno, non vedevano niente di ciò che accadeva fuori.

Restarono per un momento seduti nel furgone. Il fratello aveva un’espressione particolare. Si leccava di continuo le labbra, era nervoso. Passarono un paio di rom, un uomo e una donna, ciascuno con due buste. Dovevano aver compiuto qualche irruzione illecita nel vicinato. Si erano fatte le quattro meno un quarto, presto sarebbe arrivato il mattino. Quando scesero dalla vettura, l’aria fresca colpì i loro visi. Si infilarono il casco in contemporanea, abbassarono le visiere, aprirono lo sportello posteriore, agguantarono il tappeto arrotolato ciascuno a un’estremità e lo sollevarono per tirarlo fuori. Era pesante. Vicino a una cabina della corrente in muratura decorata con dei sassolini lo fecero rotolare via, giù per una scarpata che scendeva verso la cabina elettrica. Nella zona cresceva un accenno di erba in mezzo al fango. Una lampada da esterni fioca, dalla luce quasi azzurra, faceva risaltare i contorni del cadavere nudo. Le gambe erano ricoperte da strisce di sangue e le chiazze sulla schiena del morto avevano un colore giallo scuro, tendente al verde in alcune zone e quasi nero sui bordi.

Mentre riportavano il tappeto verso il furgone, udirono degli uccelli, in alto, sopra i tetti della città, uccelli neri che con colpi d’ala decisi facevano rotta verso le regioni meridionali. «Volatili notturni», commentò il fratello da dietro la visiera. Gettarono il tappeto in macchina, richiusero le portiere, si sedettero ai loro posti e si allontanarono in tutta fretta.

Il caso della bambina scomparsa
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