17

Era notte. La pioggia scorreva nella grondaia lungo il muro esterno, andando a cadere sull’acciaio. Andreas aveva freddo. C’era qualcosa che non andava nella sua testa. Il cranio su un lato della fronte, vicino alla tempia, sembrava infossato. Lo tastò con la punta delle dita e poi si rannicchiò in posizione fetale. Dagli squarci intorno all’ano fuoriusciva del sangue. Aveva chiesto all’uomo cosa ne avrebbero fatto di lui, ma quello era rimasto muto, non l’aveva neppure guardato, i suoi occhi vagavano in basso, di lato o in alto. Quel dolore era più forte di qualunque altro avesse mai provato prima, un dolore che prendeva tutto il pube, per poi diffondersi fin dentro le ossa del bacino. Si voltò con cautela. Gli sembrava di avere la colonna vertebrale spezzata, come se le vertebre si fossero staccate. Sotto di lui il pavimento umido odorava di sangue. Quanto ne poteva mai perdere un essere umano?

Quando lavorava all’asilo, i bambini avevano disegnato stelle che si staccavano dal cielo e cadevano sul mare. Era una stupidaggine quella delle stelle che si staccavano dal cielo. Aveva cominciato Tony, con grosse stelle dalle punte aguzze che cadevano nel mare e venivano mangiate dai pesci. Simen, il bambino che gli gettava le braccia al collo abbracciandolo come una femminuccia, non voleva disegnare. E benché avesse raccontato loro del suo sogno di fare l’astronauta, dicendo che chiunque poteva diventare ciò che voleva, si giravano dall’altra parte, quando arrivava al mattino. Era come se il mondo stesso si stesse ripiegando su di lui, tentando di soffocarlo. Non molto tempo prima era stato un ragazzo tranquillo, nella propria città. Ora era il protagonista di un film dell’orrore. Era figlio di suo padre e di sua madre. Un amico per molti altri ragazzi. C’erano diversi modi di morire, ma quello doveva essere il peggiore.

Si tirò addosso il plaid in pile macchiato dell’Ikea. Il suo pianto era tetro e la gola era come imbottita di lanugine, come quando si ha il raffreddore.

Sollevò lo sguardo al soffitto in pendenza coperto dal pannello, al tubo di plastica scanalata in alto, alla lampadina dalla luce intensa, alla porta con il lucchetto di metallo, a una mosca e un tarlo. Tutto taceva. Anche il cane dabbasso, nell’officina. Era come una guardia di frontiera che sorvegliava il portone in lamiera. Le rotule sembravano troppo grosse per le gambe.

Gli avevano dato di nuovo da mangiare, pane e un po’ di formaggio. E acqua. Nel silenzio di quello sgabuzzino, aveva per la testa un solo pensiero: “Chi erano quegli uomini?”. Sbatté con la gamba contro il vaso che stava insieme alle altre cianfrusaglie. Il vaso cadde e si ruppe e uno dei frammenti andò a ferirgli come una punta affilata la pianta del piede.

*

Sdraiata nella sua casa a schiera di Nordstrand, Annie Ormberg Johansen ascoltava la pioggia. Si alzò, andò in salotto, si sedette sul divano e si mise addosso un plaid. Il mobile in legno d’abete sulla parete più lunga era sovradimensionato, considerata la grandezza della stanza. Ai lati della finestra erano collocate due poltrone. Annie sedeva un po’ sull’una e un po’ sull’altra, per consumare entrambe allo stesso modo. Una era sua, l’altra era stata di Thona. La bambina era così fiera di avere una poltrona da grandi.

Mentre le gocce martellavano contro le finestre del salotto, Annie digitò il nome della figlia nel campo di ricerca dell’iPad. Era passato ormai del tempo dall’ultima volta che si era sottoposta a quel tormento. Comparvero delle foto, insieme a numerosi articoli di giornale. Ne lesse uno: “La madre aveva già lasciato la bambina da sola nel giardino altre due volte in passato. La nipote dell’amministratrice degli orti ha più o meno la stessa età e le due bambine giocavano insieme. Thona però è sparita e da allora nessuno l’ha più vista”. Spuntò un pop-up di Interflora. INVIATE UN ULTIMO SALUTO DI COMMIATO. Annie chiuse tutte le finestre trascinandole via, trasse un profondo respiro e fissò con sguardo assente davanti a sé. Pensava che forse si era meritata quella punizione. I colleghi le dicevano che doveva guardare avanti. Annie stava andando avanti, ma non si era mai lasciata il passato alle spalle, anche se i sogni ricorrenti in cui diceva addio alla sua bambina si erano fatti via via sempre più sporadici. Thona che si addentrava tra l’erba alta dell’autunno, oltrepassava gli alberi e si inoltrava sulla stradina che divideva in due gli orti. Passava davanti allo spaventapasseri. E nel sogno Annie diceva alla figlia: «La prossima volta che ti vedo, sarai sparita». Quella frase atroce. John per Thona non era mai stato presente. Né gli era stato permesso di esserlo, non dopo che aveva messo incinta Cathryn. Annie lo avevo punito tenendogli lontana la figlia.

Calcolò che Myrtel Haug doveva avere ormai compiuto sessantacinque anni. Avrebbe dovuto parlare con Elly Haug. E con la signora dei piccioni, ma non ce la faceva. Le loro vite erano così intrecciate che la distanza fisica non aveva nessuna importanza. Doveva essere atroce anche per loro. Le sembrava impossibile che fossero trascorsi tutti quegli anni; se alzava gli occhi e si guardava intorno nella stanza, aveva la sensazione di essere proiettata indietro nel tempo. Le notti si stavano facendo più fredde e più buie. Di nuovo. Lei dimenticava ogni stagione non appena era finita.

*

Sabato mattina Marian si sistemò a sedere nel letto con due grossi cuscini dietro la schiena, tirò il piumino fino a metà coscia e ci sistemò sopra il Mac. Birka era distesa in fondo al letto. Non impiegò molto ad accedere all’archivio della polizia. Posò la testa all’indietro e lasciò riposare per un attimo gli occhi sul legno dell’alto soffitto.

Il figlio di Myrtel Haug, Glenn, era un alcolizzato. Era stato convocato per una serie innumerevole di interrogatori, perché era nelle vicinanze quando Thona era scomparsa, cosa che lui però aveva negato e di cui non vi erano prove. Poi si era nascosto. Myrtel diceva di non averlo visto, non voleva avere niente a che fare con il figlio. Una famiglia disfunzionale, in altre parole. Glenn Haug era il padre di Elly. La madre di Elly era morta per overdose quando la figlia aveva quattro anni e Myrtel Haug probabilmente non era la persona migliore per prendersi cura di una bambina. Qualcuno lo aveva annotato in uno dei documenti a margine, con una matita. I cani segugio avevano fiutato qualcosa vicino alla piccionaia, ma poi erano stati depistati, dagli uccelli, secondo quando era riportato in uno dei documenti. Nella casetta dei piccioni la bambina non l’avevano trovata.

Marian prese il libro di Knausgård che era poggiato sul comodino, lo aprì e lesse ancora una volta le ultime righe. Perché lei lavorava con la morte: «E la morte, che avevo sempre considerato come la dimensione più importante della vita, oscura, attraente, non era niente di più di un tubo forato che spruzza, un ramo che si spezza al vento, una giacca che scivola da una gruccia e cade a terra».

*

Thyra Vinding andò alla finestra della cucina. I vestiti che aveva lavato sventolavano dal vecchio stendi panni arrugginito. Aveva comunque fatto il bucato, benché fosse domenica. Quando il vento colpiva lo stendipanni, si udiva un suono lamentoso. Certo il tempo non era dei più adatti per far asciugare i vestiti, ma li aveva lavati più che altro per avere qualcosa da fare. Aspettava che la vicina con il cane uscisse, perché sapeva che il cane aveva degli orari fissi per le sue passeggiatine. Quelli che prima erano prati verdi, adesso erano ricoperti dalle foglie, benché molte continuassero a rimanere ben ancorate agli alberi. Non c’era più nessuno che le spazzava. Quando qualcuno suonava al portone esterno, era lei ad aprire per farli entrare, perché quelli dei piani di sopra non avevano quei citofoni così moderni. A lei però piaceva; il suono del campanello era profondo come una voce di basso. Diede un’occhiata allo spiazzo in ghiaia davanti al portone: nessun cane in vista. Qualche sparuto ciuffo d’erba appassita spuntava qua e là. C’erano tanti squilibrati là fuori: accattoni, immigrati e drogati. Da quel che vedeva, l’artista riceveva diverse visite, tra cui quelle di una grossa donna. L’aveva fatta entrare poc’anzi e qualche settimana prima lui l’aveva fotografata nuda in giardino. Era un’indecenza. Thyra Vinding aveva la finestra aperta e dunque li aveva sentiti chiacchierare insieme. A ogni scatto, il rumore del diaframma della vecchia macchina fotografica fendeva in due il silenzio. Poi erano tornati di sopra insieme, poteva benissimo immaginare a fare cosa. L’altro giorno erano state da lui anche un paio di ragazzine di quattordici o forse quindici anni. Ma era ovvio che avesse bisogno di modelle di tutte le età. Se glielo avesse chiesto, lei avrebbe posato per lui; anche i corpi non più giovani erano interessanti. C’erano cose peggiori: sui giornali si leggeva di stranieri che cercavano di intrufolarsi in casa di gente anziana per derubarla. Se solo riuscivano a entrare, rubavano come corvi. Lei era la tuttofare nel palazzo. Riordinava, addobbava l’ingresso, sistemava e si prendeva cura della casa. In quel momento sentì dei passi sulle scale. Il portone fu aperto. Era quella dell’appartamento nella torre che andava a sguinzagliare il cane in giardino. Si parlava tanto degli stranieri sui giornali in quei giorni, orde che arrivavano su gommoni attraverso il Mediterraneo. E anche se la donna dell’appartamento della torre non era una di quelli, non era comunque arrivata in Norvegia per sua libera scelta. Si capiva bene che era stata adottata. Erano tutti uguali, quelli adottati.

Il caso della bambina scomparsa
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