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Alle tre e mezza di notte si chiuse nell’ufficio del seminterrato. Faceva freddo e c’era odore di calcestruzzo. Accese l’interruttore. Il lampadario proiettava una luce sporca e triste. Marian tornò di sopra a prendere il piumino e il cuscino in macchina. Come c’era arrivata fin lì? Guidando. Aprì la brandina con gesti febbrili e la posizionò dietro la scrivania, poi chiuse a chiave la porta e stese il tappetino per il cane sul pavimento. «Sdraiati, Birka». Glenn Haug era stato così svelto! Sembrava un indemoniato! Quanto poteva essere grave la sua ferita? L’artista aveva senz’altro chiamato aiuto. Prese il cellulare e controllò su internet. Niente. Accese la stufa ad aria calda, si sedette sulla brandina e avvolse bene il piumino intorno al corpo. La scheggia nel palmo della mano le faceva male. Svitò il tappo della bottiglia di gin e bevve a grandi sorsi, finché non sentì bruciare la gola e dolerle lo stomaco.

Si mise a sedere sulla poltrona dell’ufficio e avviò il computer. Gli occhi furono assaliti dal barlume luminoso dello schermo. Si sentiva il viso gonfio e avvertiva un senso di nausea. Si liberò della giacca e la gettò sul pavimento. I quotidiani in rete non avevano pubblicato niente. Niente. E lei era lì, seduta nell’ufficio del seminterrato della questura. Aveva fame, ma non aveva nulla da mangiare. Birka le dava la schiena, sdraiata sul tappeto. Non si muoveva di un muscolo e per un istante Marian pensò che fosse morta, ma era viva. La pistola la ripose nel cassetto della scrivania. Poi si stese sulla brandina a fissare il lampadario del soffitto. Erano delle vendicatrici, quelle formiche. Eccole che arrivavano, fuoriuscivano dai muri, puntolini neri, a frotte. Chi stava bussando alla porta? Sollevò la testa, non c’era nessuno. Nessuno stava bussando. A un tratto si trovò davanti Salman. E anche Tønnesen, che però era invisibile, come se non esistesse nella realtà. «Andatevene via!», esclamò, ma capì subito di trovarsi immersa in un silenzio grigio e oscuro. Lontano. Da tutto!

*

Ed eccola lì, seduta al livello K1, nel seminterrato del sottosuolo, ad aspettarli come una talpa, le mani strette intorno a un bicchiere di carta vuoto. La porta era chiusa a chiave. Udiva la sua voce di bambina: Vorrei una pistola giocattolo. Poco prima aveva fatto un rapido giro fuori dall’ufficio, per andare a un chiosco a comprare qualcosa da mangiare e da bere. Aveva gettato la bottiglia di gin in un cassonetto. Mentre stava rientrando dalla porta principale, si era imbattuta in un’ex collega. Era sempre meglio passare da lì, perché di solito i colleghi entravano da altre porte. Ma, benché fosse ancora l’alba, aveva comunque incontrato Randi, con cui aveva lavorato negli anni passati. Randi le chiese se ci fosse qualcosa che non andava.

«È da tanto che non ti vedo…».

«Eh, già», aveva tagliato corto Marian ed era tornata di sotto.

E adesso stava aspettando Farhi Salman e Cato Isaksen, o qualche agente che non conosceva, ma non arrivò nessuno. Le squillò il cellulare. Era l’addetto della ditta degli allarmi. Ma dov’era? Lui era davanti a casa sua e stava suonando il campanello. «Aha», aveva risposto Marian perplessa.

Era venuto a installare l’allarme che lei aveva ordinato, quello per cui aveva tanta fretta. Marian posò il telefono, le tremavano le mani. Erano le nove, sentì fuori dalla porta la voce di Henningsen che stava scendendo all’ufficio materiali, come sempre passando dalle scale.

Una mezz’ora più tardi bussarono alla porta. Marian si alzò e la spalancò del tutto per occultare la brandina ripiegata che doveva nascondere. Era Tønnesen. Birka gli abbaiò.

Marian si tirò ancora più giù il maglione e gli si piazzò davanti.

«Sto andando a casa», gli disse.

«Ora? Alle nove e mezza?».

La fissò e lei sorrise. «Le probabilità che questo caso venga risolto sono pari a zero», gli disse. «Salman si rifiuta di far ricercare Haug».

«Temo che tu abbia ragione, Marian. Io d’altronde sono già abbastanza impegnato con il caso di Joner e Schavenius. Ti senti male? Che hai fatto alla mano?». Prese una sedia e si accomodò.

«Sono caduta, ma va tutto bene, sono solo un po’ scocciata». Sentiva il sudore che le colava dalla fronte e sapeva di essere bianca come un cencio in viso. «Alla fine quella palla l’ho trovata. La qualità del reperto ovviamente è deteriorata dopo quindici anni, perciò alla Scientifica servirà del tempo. Le cose di minore importanza finiscono in fondo alla lista, lo sai bene».

«Sì, ma tornerò da te con informazioni su Myrtel Haug». Tønnesen si alzò.

«Myrtel Haug? Quali informazioni?»

«Verrò uno dei prossimi giorni», proseguì lui. «Ho fatto qualche telefonata in giro».

«Ma Tønne», fece Marian. «Ormai sei fuori dal caso».

«Chiamami pure Tønne, se ti fa piacere. Darò una mano a Cato e agli altri della Sezione Omicidi, ma ti informerò subito non appena avrò maggiori notizie».

*

Mentre saliva al garage, incontrò la caposezione, nella luce squallida dell’ascensore. La pistola che portava alla cintura sotto il maglione si trasformò in un’enorme pietra prominente. Si avvolse più stretta nella giacca in pelle. Ingeborg Myklebust si chinò e accarezzò il cane. Era tesa in viso.

«Tutto bene?», domandò.

«Insomma, vi siete presi Tønnesen», replicò Marian, accorgendosi da sola di avere la voce incrinata.

«È vero, ma spero tu possa capire, si tratta di un caso molto grave. Piuttosto, tu non mi sembri tanto in forma».

«Sono in formissima», rispose Marian.

In seguito, mentre era seduta in macchina, fu assalita dal tremito e da un attacco di nausea. La Myklebust senza dubbio sapeva dell’arma. Stavano tutti recitando una parte. Era così che lavorava l’Unità investigativa speciale, in silenzio e nell’ombra, lasciandola compiere i suoi passi falsi, per poi accerchiarla e arrestarla. Erano come ombre grigie, soldati invisibili che lottavano nel nome della giustizia. L’ultima volta non erano riusciti a incastrarla, ma ora ce l’avrebbero fatta. Aveva davvero esagerato: aveva trattenuto delle prove, distrutto un indizio, si era fatta consegnare illegalmente un’arma e aveva sparato a un uomo sulla gamba.

*

L’uomo della ditta d’allarmi ovviamente non l’aveva aspettata. Lanciò un’occhiata rapida al foro della pallottola nella porta, prima di entrare. Avrebbe dovuto stuccarlo e passarci sopra una mano di vernice. La piccola pallina di stagnola era sul tavolo sotto lo specchio. Non era stato da pazzi architettare quella trappola. Era stata una mossa intelligente, perché qualcuno era davvero salito in casa sua e aveva spostato le cose. Aveva fatto il fuoco nella stufa con i documenti e il biglietto di Annie, acceso la candela di Clas-Ohlson, spostato le tazze e i bicchieri nel pensile sopra il bancone della cucina. Glenn Haug aveva detto a Thyra Vinding di essere suo fratello. E poi si era introdotto in casa sua, probabilmente per ucciderla. Ma perché non lo aveva fatto? E perché aveva rimesso a posto gli oggetti nel pensile della cucina?

Marian prese la busta con il mangime per cani dal mobile e riempì la ciotola di Birka, che si gettò subito sul cibo con il guinzaglio ancora al collo.

Andò a prendere una nuova bottiglia nel mobiletto del bagno e bevve tre sorsi abbondanti. Sarebbe tornata in ufficio, non poteva dormire in casa. Il liquore le bruciava nello stomaco. Nel frigo aveva uno yogurt. Era scaduto, ma lei tolse comunque il coperchio e bevve direttamente dal bicchierino. Si sentì pervadere dalla calma non appena l’alcol ebbe raggiunto il sangue. Si avvicinò alla scala in acciaio e guardò verso l’alto, restando per un attimo in ascolto. Poi si arrampicò al piano di sopra. Si accertò che il cassettone fosse nella stessa posizione in cui lo aveva messo, poi si sedette in ginocchio, afferrò la maniglia e strattonò via il primo cassetto. Il contenuto si ammassò in maniera confusa. Tenne in mano il cassetto, mentre spargeva tutto sul pavimento. Sotto un vecchio album e dei calzini di lana fatti a mano c’erano diverse carte. E il suo passaporto. D’un tratto scorse anche il cuoricino d’argento, quello che le aveva regalato un assassino prima di essere arrestato. E lei lo aveva accettato. Una fotografia scivolò fuori e le cadde davanti. Ritraeva lei e la madre adottiva. Ebbe un tuffo al cuore. Sylvia Plath aveva scritto della signora Gentilezza, che dentro era nera come il carbone. Sua madre aveva fatto del suo meglio. Era come aveva detto Annie: «Ho fatto del mio meglio, ma non è stato abbastanza». Nella foto una piccola Marian sorridente teneva la manina in quella della madre adottiva. Era primavera, si trovavano davanti al condominio di Stovner, vicino a un albero con le foglioline appena spuntate, che creavano dei giochi di luce sull’asfalto. La madre adottiva aveva lo sguardo abbassato su Marian. C’era forse del calore nei suoi occhi?

Scese di nuovo in salotto, si sedette al tavolo da pranzo e cercò ancora una volta su internet gli orti di Geitmyra. Erano situati nel quartiere di St. Hanshaugen, una delle zone più densamente popolate di Oslo. Il terreno era di proprietà del Comune e veniva gestito dal ministero per l’Istruzione sin dal 1909. Erano dodici le scuole legate a quei giardini, principalmente scuole dei quartieri di Sagene, St. Hanshaugen e Gamle Oslo. Era una zona sottoposta a forti pressioni. Le compagnie edili volevano accaparrarsi il terreno degli orti, che era per loro un bel bocconcino, e Nordre Gravlund aveva un disperato bisogno di espandersi. La gente continuava a morire e il cimitero era pieno fino all’orlo. Ma per il momento gli orti resistevano.

Marian chiuse le pagine e caricò Google Maps. Il globo comparve sullo schermo. Inserì l’indirizzo degli orti di Geitmyra e cliccò su street view. Il programma zoomò sull’Europa, la Germania e la Danimarca, prima di individuare la Norvegia e Oslo e puntare verso una zona verde nel centro della città. All’inizio l’immagine era sfocata, ma poi comparve un parco triangolare attraversato da sentieri in lungo e in largo. C’erano vecchi alberi dai rami scuri, delle casupole e uno stagno. Fuori erano stati sistemati qua e là dei mobili da giardino: una panchina turchese in ferro arrugginita, una sedia in legno rosa acceso, un tavolo e, se ingrandiva l’immagine, Marian poteva addirittura vedere delle persone.

Il caso della bambina scomparsa
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