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«Perché stavi cercando informazioni su Andreas Lindeberg? Te lo ha chiesto Marian Dahle?»
«No». Annie sentiva da sola quanto si era fatta esile la propria voce. Avrebbe dovuto rispondere sì. Guardò il tagliacarte di Dan nel contenitore di plastica.
«Hai trovato un foglio con i nomi di alcuni uomini, Annie? Nella stanza del personale, qualche tempo fa, dentro la mia Bibbia?».
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Marian udì un rumore. Il suo campo visivo era notevolmente ridotto per via della nebbia, e del buio, ma c’era qualcosa che si muoveva dietro un cespuglio sempreverde. E questa volta non era un gatto. All’improvviso ne emerse Myrtel Haug con tutta la sua figura.
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La calligrafia su quel biglietto dunque era quella di Frank Moe. Il fratello di Margrethe aveva compilato i nomi degli uomini che avrebbero dovuto essere catturati, torturati e uccisi. «No», rispose Annie. «Non capisco a cosa ti riferisci, Margrethe. Andreas Lindeberg per il momento è solo scomparso. Niente di più».
Il volto di Margrethe si serrò. «Allora è vero, sei stata tu a trovare quel biglietto, Annie».
Annie strinse la borsa contro lo stomaco. «È arrivato il momento che vada a casa».
«E credo che tu lo abbia detto a Marian Dahle». Le labbra erano tese e sottili.
«No», rispose Annie con un filo di voce. «Lei non lavora a quel caso. È la Omicidi che se ne occupa». Sembrava che il suo cervello non fosse in grado di sintonizzarsi sul pericolo. Era la risposta sbagliata. Avrebbe dovuto confermare che Marian lo sapeva. «Non ricordo quali nomi fossero scritti su quel foglietto, l’ho buttato».
«Da quel che mi ha detto Frank ho capito che non stai bene, Annie». Margrethe estrasse gli occhiali da lettura dalla tasca del cappotto e li inforcò. Poi prese il tagliacarte dal portapenne.
Annie guardò le mani di Margrethe. Erano grandi. D’altronde guidava la moto, ed era la più abile al corso di difesa personale. La più brava con i pazienti. La collega migliore. E la più pericolosa.
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Marian fissava Myrtel Haug. Il cono di luce della torcia era ancora puntato verso il basso e creava una striscia allungata sul terreno. Respirando rapido, Marian estrasse il cellulare dalla tasca. «I resti di uno scheletro», sentenziò. «Di una bambina. Ho avvisato la questura», mentì. Il berretto le gocciolava. Myrtel fece un passo verso di lei.
«Sei sospettata dell’omicidio di Thona Ormberg Johansen. Adesso verifico quanto è distante la pattuglia», aggiunse Marian.
«Io non ho commesso nessun omicidio». Myrtel mise le mani a coppa e vi soffiò aria calda.
«Ti chiedo di restare calma». Le tremavano le mani, mentre armeggiava con il cellulare, che si riempì tutto di terra. Vide che Annie l’aveva chiamata, cinquanta minuti prima. Selezionò il numero d’emergenza della polizia e spiegò brevemente la situazione.
«Io non ho ucciso nessuno», tornò a ripetere Myrtel Haug. «La più grossa differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazza. Non capisci un’acca!».
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Margrethe sbarrò la porta e fissò la borsetta di Annie, scoraggiandola così dal prendere il cellulare. Infilò il tagliacarte in tasca e inviò un lungo SMS a qualcuno. Dopodiché disse: «La polizia non aveva intenzione di punire quegli uomini, capisci? E poi quelle cause stavano andando troppo per le lunghe. Schavenius aveva ottantasette anni, quel porco. Bisognava fare in fretta. Sarebbe potuto morire di morte naturale. Ora, invece, ha ricevuto la giusta punizione».
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La prima pattuglia sopraggiunse dopo pochi minuti. Il suono delle sirene cresceva per poi scemare nuovamente tra gli edifici in muratura di Uelandsgate. Poco dopo le auto si fermarono sul marciapiede davanti all’ingresso di Nordre Gravlund. La luce blu lampeggiante squarciava l’oscurità con i suoi sprazzi intensi. I poliziotti entrarono di corsa e in un baleno la zona si trasformò in una scena del crimine. Donne e uomini in divisa, volti rigidi, sguardi indagatori, scalpiccio di piedi, torce, voci sommesse. I tecnici vestiti di bianco della Scientifica arrivarono ben presto sul posto per controllare i resti dello scheletro nella terra nera. Myrtel Haug venne portata via con una coperta sulle spalle.