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L’ispettore Marian Dahle gettò la giacca sulla sedia, afferrò il guinzaglio del boxer nero maculato e si fermò per un attimo davanti al vecchio mobile con il lungo specchio incorniciato nell’atrio oscuro. Erano le pareti di tronchi in legno a inghiottire la luce. Raccolse i capelli neri in una coda di cavallo. Il volto era così inespressivo e poco affabile che preferiva evitare il suo stesso sguardo. Aveva compiuto trentasette anni una settimana prima, ma non conosceva il giorno esatto del suo compleanno, perché era originaria della Corea ed era stata adottata e portata in Norvegia all’età di tre anni. Uno degli occhi era diventato ancora più sbieco a causa delle ferite dell’incidente.
Adesso vivevano lì, lei e il cane, in un’antica casa in legno di Sophus Lies gate, a Frogner. La gente si fermava sul marciapiede ad ammirare quella villa che sorgeva in mezzo a palazzi in stile classico di cinque o sei piani. La casa era monumentale, la facciata asimmetrica e le porzioni dell’edificio si sovrapponevano le une alle altre. Era dominata da due assi laterali, uno con una torre e l’altro con una veranda sormontata da un frontone con travi intrecciate. La torre era sua.
Birka, che aveva ormai tredici anni, ansimava stesa sul pavimento, intenta a leccarsi. I boxer erano cani affettuosi, ma ormai si rifiutava di uscire dal cancello. La casa si trovava in un giardino di arbusti incolti di circa mille metri quadri che sorgeva in mezzo ai palazzi. Sul davanti sopravvivevano un paio di alberi da frutto mezzo morti e qualche vecchio cespuglio di frutti di bosco, mentre vicino all’ingresso, accanto allo stendi panni arrugginito, c’erano grosse querce e cinquefoglie. Dei bassi muretti di sassi suddividevano lo spazio in diversi riquadri e sotto l’albero più grande sorgeva un tavolo in pietra coperto di foglie rosse e gialle. Il cane si accontentava di giocherellare in giardino, sotto le piante di lillà i cui grappoli di fiori erano ormai avvizziti. Birka si stava avvicinando alla fine, il muso era diventato interamente grigio, in alcuni punti quasi bianco. Il pensiero che il suo cane presto l’avrebbe lasciata era insostenibile per Marian. Ogni giorno che passava Birka perdeva qualcosa della propria natura di cane. E Marian perdeva qualcosa della propria natura di essere umano.
L’argentatura dello specchio ormai vecchia era chiazzata di scuro, perciò Marian non riusciva a vedersi in maniera nitida: bocca sottile, naso piccolo e zigomi alti. Indossava un paio di pantaloni di una tuta e un maglione verde scuro. Era diventata schiva, dopo l’incidente. Le piccole rughe che si formavano intorno agli occhi quando sorrideva sarebbero rimaste per sempre coperte dalla cicatrice; l’ustione sembrava un impasto per biscotti intrecciato su un lato del viso. Si stendeva fino alla guancia e al collo, continuando sotto i vestiti, sul braccio sinistro e lungo la clavicola, per andare infine ad arrestarsi sul piccolo seno.
Cato Isaksen le aveva telefonato svegliandola quella mattina all’alba, per proporle «un piccolo incarico per un cold case», così si era espresso. Si trattava di un vecchio caso di sparizione di cui avrebbe voluto che si occupasse, il caso Thona, uno di quelli più famosi e più seguiti dalla stampa. Per un attimo Marian aveva sentito accelerare il proprio battito: il fatto che glielo avesse chiesto era una vera e propria dichiarazione di fiducia. Ma lei aveva rifiutato. Si trattava di una bambina scomparsa in una zona verde al centro della città quindici anni prima. La Kripos1 aveva creato una nuova unità per i vecchi casi irrisolti e la Sezione Omicidi aveva ricevuto l’ordine di mettere a disposizione alcuni dei propri investigatori. Ovviamente Cato non aveva alcuna voglia di lasciar andare dei collaboratori attivi e per questo aveva contattato lei. Erano sei mesi che Marian non lo sentiva. Non glielo aveva proposto per mostrarsi gentile, cosa che tra l’altro l’avrebbe infastidita. Marian avrebbe preferito tornare a lavorare nel pieno delle proprie funzioni, ma sapevano entrambi che non era possibile.
Un anno prima era stata spinta nel forno crematorio di un ospedale psichiatrico dismesso da una squilibrata che stava cercando di arrestare. Era stato come ritrovarsi dentro la scena d’azione di un orrendo film poliziesco. Cato l’aveva salvata in extremis. Da allora era stata in malattia, lontana da omicidi, suicidi, cadaveri deturpati e letture di innumerevoli documenti.
Aveva sperato di trovare un po’ di serenità in quella casa antica. I soffitti erano alti, con travi sia in orizzontale che in verticale. Quel legno vecchio ormai di un centinaio di anni emanava un aroma intenso, esaltato dal freddo. E quella era una serata fredda. Nell’appartamento accanto viveva un artista, un uomo sulla quarantina con i capelli scarmigliati e dei bicipiti muscolosi sotto la maglietta. Lo aveva visto dalla finestra. E al piano terra abitava una signora anziana. Marian viveva lì da quattro mesi, ma non aveva ancora parlato con nessuno dei due, benché avessero bussato alla porta un paio di volte. Immaginava fosse l’artista, ma non aveva aperto.
1 Si tratta della polizia criminale (N.d.T.).