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Tolse la suoneria all’iPhone e dopo poco si addormentò, con la pistola sotto il cuscino, ma si risvegliò quasi subito, sentendosi stranamente riposata. Faceva piuttosto freddo nella torre. Il silenzio era totale, interrotto solo dal rumore di qualche auto di passaggio lungo la strada. Si sollevò per metà sul letto, appoggiandosi sui gomiti e si ricordò improvvisamente che aveva una serratura nuova, ma attraverso il silenzio udì qualcos’altro, un suono appena percepibile. Birka dormiva. Marian allontanò il piumino e spostò le gambe fuori dal letto. Indossava una maglietta e degli slip. Ai piedi non aveva niente.
Era un suono leggero, come quello dell’acqua che scorre. In quello stesso istante si rese conto che in effetti si trattava proprio di quello: acqua che scorreva. Sbarrò gli occhi. Qualcuno stava usando il bagno. Lui era nell’appartamento. Respirando piano, infilò la mano sotto il cuscino e afferrò l’arma. Com’era entrato? Cambiare quella maledetta serratura non era servito a niente. Aprì l’anta dell’armadio e guardò dentro. Il pannello sul retro non c’era più e Marian si ritrovò a fissare l’interno della soffitta sporca, illuminata dalla luce intensa della lampadina.
Si tappò la bocca con la mano e trattenne il respiro. Fu come se il cervello venisse illuminato da un guizzo bianco lucente. Serrò gli occhi e posò per un secondo la fronte al muro, poi afferrò un paio di pantaloni e se li infilò alla svelta. Dunque era entrato da lì, era passato attraverso l’armadio, svitando il pannello con un cacciavite e poi le era sgusciato accanto mentre dormiva.
D’altronde la stessa chiave apriva anche il portone esterno e nello stesso mazzo, quello che il proprietario con il gatto aveva dato alla vecchia signora, c’era la chiave del lucchetto della porta della soffitta. E ora lui era di sotto nel bagno.
Doveva essere stato in casa sua a più riprese e una volta doveva addirittura aver preso in braccio Birka per portarla di sotto in salotto. Quel cane era tutto tranne che un cane da guardia. E lei aveva percepito la sua presenza, tutto tornava.
Doveva aver visto la valigetta della pistola mentre le strisciava accanto, dunque sapeva che era armata. Marian strinse l’arma, mentre ascoltava i passi di lui sul pavimento del piano di sotto. Ora era in salotto. Il cellulare era dabbasso, sul tavolo da pranzo, perciò era tagliata fuori dal mondo, non poteva avvertire nessuno, né chiedere soccorso.
Il cuore le batteva così forte da farle male. Birka, la guardava. Stupido cane. Avrebbe dovuto cercare di coglierlo di sorpresa, ma la trattenne una paura improvvisa. Magari anche lui era armato? Forse era pronto. Ovvio che lo era.
Gattonò d’impulso dentro l’armadio e si spinse oltre l’apertura fin dentro la soffitta. Il pannello era più in là, sul pavimento. Ma lui aveva senza dubbio pensato che sarebbe potuta uscire da lì. Qual era il suo piano? Il rotolo di materiale isolante era stato spostato. I palmi delle mani si erano fatti grigi per la polvere. Disperata, gattonò fino agli scatoloni di cartone dell’artista sulle ginocchia nude e il legno ruvido la graffiò tutta. Erano state tirate fuori delle cose, i materiali che l’artista usava di solito, gesso e malta. Li vide nel sottile fascio di luce che giungeva dai lampioni attraverso le fessure della trave del tetto. Si mise in ascolto, ma tutto taceva. Una scheggia le si conficcò nel palmo di una mano, quella in cui teneva la pistola, provocandole un dolore nella carne e facendola sanguinare.
Spalancò la porta della soffitta e scese la piccola scala, si soffermò per un istante davanti all’appartamento dell’artista e poi bussò forte, tanto da far rimbombare il rumore tra le pareti. Tutti dovevano sentire, anche l’uomo che era dentro casa sua. Con i piedi nudi, sentiva un freddo gelido e la ferita della mano sanguinava copiosa. Bussò ancora, questa volta più forte, ma nessuno venne ad aprire. Le sembrò di udire dei passi, ma c’era solo un silenzio assordante.
Si avviò giù per le scale, doveva uscire per strada e fermare una macchina, ma fu bloccata dal rumore di un chiavistello che veniva girato. Il rumore proveniva dalla sua porta. Si voltò, sollevò la pistola, fletté le ginocchia e si preparò. La maniglia venne abbassata.
Lui uscì. Sulle prime non la vide, perché lei stava più in basso sulle scale. Le si oscurò per un attimo la vista, dei puntini rossi sfavillarono sulla palpebra. Erano passati tanti anni da quando era stata scattata la foto che aveva visto negli archivi della polizia, ma il volto di quell’uomo era inconfondibile: era Glenn Haug. Con un berretto blu. Non portava il cappotto, ma una corta giacca e metà del viso era deturpata da un tatuaggio, una ragnatela.
Marian prese la mira tremante e urlò così forte da avere l’impressione che le corde vocali le si sarebbero spezzate. «Fermo o sparo!».
Lui trasalì quando la vide, si rannicchiò su se stesso, osservandola con occhi gelidi. Quello non era un uomo che si lasciava spaventare. Marian si accorse che teneva in mano un coltello. Glenn Haug raddrizzò la schiena e, senza distogliere lo sguardo da quello di lei, tese le labbra e le si scagliò contro con il coltello alzato. Non era la prima volta che quell’uomo si ritrovava ad affrontare uno scontro.
La sovrastava dal gradino più alto, con una rabbia repressa dipinta sul volto. Marian mirò alla gamba e, pur sentendo tremare il braccio, riuscì a mantenere la pistola in posizione bassa. «Non avvicinarti!», gli urlò, ma lui posò comunque il piede sul gradino successivo e Marian premette il grilletto. La canna della pistola emise un bagliore lucente e il proiettile lo colpì alla gamba. Il boato rimbombò doloroso nei timpani. Glenn Haug cadde, ruzzolò su se stesso e rotolò giù per le scale. Marian si scansò con un salto quando le passò accanto. Il silenzio che seguì pungeva gli orecchi, come pietrisco che sdrucciola via dal cassone di un camion. Chiazze rosse si allargarono sui gradini come inchiostro, il coltello scivolò giù per le scale e Marian si chinò per raccoglierlo, ma le sparì da sotto gli occhi con un sibilo metallico.
L’artista spalancò la porta. «Che cazzo succede?!», gridò, avvolto in una coperta. Marian aveva ancora la pistola alzata. Glenn Haug giaceva come un fagotto in mezzo alle scale, ma riprese il coltello e si tirò su. Si aprì anche la porta del pianterreno e comparve la vecchia signora, a piedi nudi e con indosso una camicia da notte troppo grande. «Azione in corso!», gridò Marian. «Rientra in casa!», urlò all’anziana.
*
Non sentiva dolore, solo un liquido caldo che scorreva giù per la gamba all’interno dei pantaloni, andando a riempire la scarpa. Si trascinò attraverso il giardino e uscì; le foglie tremavano come in preda ai crampi. Sembravano fasulle, frammenti di altri alberi con cui lui era cresciuto. Udì il suono di uno strappo alle proprie spalle, era il vento che sconquassava il telo cerato steso sulla catasta della legna. Si trascinò dietro la gamba zoppicando, ora gli faceva male.
Avrebbe dovuto ucciderla prima, pugnalarla mentre dormiva, così tutto sarebbe andato bene. E invece quel cagnaccio si era svegliato e l’aveva guardato e lui era sceso giù in salotto. Sua madre aveva detto: «Sono vicini a risolvere il caso. Quella donna è pericolosa, scoprirà tutto». Non sarebbe andato al capanno. A conti fatti, non era un assassino. Aprì il cancelletto e trovò il modo di trascinarsi fuori in strada.
*
Marian andò a prendere il cellulare che era rimasto sul tavolo. Quando tornò fuori, l’artista era ancora nella posizione in cui l’aveva lasciato.
«Sono in contatto con la polizia», gli disse. «Rientra in casa. Stanno venendo a prenderlo, c’è una pattuglia fuori in strada».
«Ma è stato colpito», osservò lui guardando il foro con la pallottola nella porta di Marian.
«È solo una ferita superficiale alla gamba. Fai come ho detto!», urlò lei. «Rientra in casa. Io adesso vado in questura a fare rapporto. Ti contatteranno se ci sarà bisogno di un testimone».
L’artista si ritirò, Marian aspettò un istante poi si mise all’opera.
Strofinò tutte le scale con due secchi d’acqua, sapone, stracci e un vecchio asciugamano. Salì in soffitta e riavvitò il pannello con un cacciavite trovato in cantina. Poi si precipitò in casa, salì la scala in acciaio, spostò il pesante cassettone e lo rovesciò davanti all’anta dell’armadio. Dopodiché, con l’aiuto del cacciavite, estrasse il proiettile dal legno della porta e gettò il bossolo vuoto nella spazzatura. Raccolse il suo badge, si cambiò i vestiti, prese con sé il cibo del cane e la bottiglia di gin, scese in cantina per cercare la brandina da viaggio pieghevole e si portò via cuscino e piumino dal letto. Trasportò tutto in macchina. La borsa della spazzatura la gettò nel bidone del vicino, dall’altro lato della strada.