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Il mattino dopo scendeva di nuovo una leggera pioggerellina. Marian aveva dormito solo un paio d’ore, sul divano, facendo nervosamente avanti e indietro alla finestra. Riempì la ciotola del cane e Birka ci si avventò trangugiando il cibo come fanno di solito i cani. Guardò di nuovo fuori dalla finestra, la chiazza scura con i resti neri del falò. Aveva quasi sperato che non fosse vero, che fosse tutto frutto della sua fantasia. I grossi alberi quasi non avevano più foglie e gli edifici lungo la strada sembravano più vicini.
Si vestì in fretta. Indossò dei jeans puliti, una canottiera di seta che non pizzicava e un lungo maglione grigio.
«Andiamo, Birka, usciamo». Si infilò la giacca.
Arrivata di sotto, andò a smuovere con il piede la cenere nel punto dove c’era stato il falò. Osservò i bassi muri in pietra che suddividevano il prato ghiacciato in tre piccoli riquadri. L’erba era di un giallo senape. Tra le pietre erano cresciuti fitti dei piccoli ammassi di muschio verde scuro. Oltre lo steccato udì il brusio del traffico e un bambino che strillava. Poi scorse un movimento, dietro l’albero accanto al tavolo in pietra. Era un grosso ramo spoglio che ondeggiava nel vento.
Suonò il campanello rotondo in ottone e l’anziana signora aprì subito la porta, come se la stesse aspettando.
Marian la guardò. «Hai visto uno sconosciuto aggirarsi qui intorno?»
«No, non ho visto sconosciuti». Aveva un canovaccio su una spalla e indosso portava un vestito sporco di colore rosso chiaro, con sopra una giacca fatta a maglia.
«C’è qualcuno che si aggira da queste parti. Non devi aprire il portone a nessuno. Hai qualcosa in contrario se porto la legna giù in cantina? Qualcuno l’ha usata per accendere un falò sulla ghiaia qui fuori».
«Ma che dici?», squittì la vecchia aprendo un po’ di più la porta. «È una cosa orribile». Raddrizzò la schiena. «Forse potresti chiederlo all’artista, di portarti la legna di sotto. Alla fin fine è lui l’uomo».
«Ci penserò io», rispose Marian, uscì e svoltò dietro l’angolo della casa.
*
Seduta nel suo ufficio, Marian rifletteva sul Reparto d’emergenza psichiatrica dal punto di vista degli utenti, i pazienti. Pensando all’espressione utente si immaginò una donna ormai adulta che aveva sofferto per molti anni, o un ragazzo che si portava dietro da tempo problemi con la famiglia e con l’alcol. Una volta un collega le aveva detto che, dal momento che aveva avuto un’infanzia tanto problematica, doveva essere un persona matura e saggia. Ma non lo era affatto. Forse era stato un paziente a scrivere il biglietto? Doveva chiedere ad Annie di controllare un’altra volta quei nomi nel sistema informatico dell’ospedale. Magari potevano verificare insieme le liste dei pazienti, avrebbero potuto scovare qualche dato interessante. E se fosse saltato fuori qualcosa, ne avrebbe informato subito Cato, raccontandogli tutto dall’inizio, che Annie aveva trovato un foglietto con quattro nomi nella stanza del personale e che era rimasta sorpresa leggendovi i nomi di Glenn Haug e di Andreas Lindeberg. Gli ultimi due nomi Annie non li conosceva ancora, non prima di apprendere dai media che il numero tre, Gustav Joner, era stato ucciso. E ora Marian era stata così brava da far finire quel foglietto nella stufa.
Calcolò che aveva lavorato al caso Thona per quattro settimane. E non avevano fatto neppure un passo avanti. Aveva telefonato a Tønnesen, per chiedergli cosa intendesse con quel messaggio, quello in cui diceva di essere sul punto di scoprire qualcosa e lui le aveva risposto che lo avrebbe saputo presto. Aveva chiamato anche Elly Haug, che però non aveva risposto. L’uomo dalla voce rude non aveva ritelefonato e nessuno aveva acceso un falò quella notte. Era come se l’assenza di avvenimenti la rendesse nervosa.
Sulla strada di ritorno dal lavoro, passò da casa di Annie. Doveva cercare di tranquillizzarla.
*
Marian incrociò Fanny, che stava uscendo dalla casa a schiera. Aveva un’aria arrabbiata. C’era qualcosa di particolare in quella donna dagli occhi penetranti, il corpo fin troppo palestrato e il ciuffo bianco.
«Salve», le disse.
«Ciao», replicò Marian e le venne subito da pensare ai tacchi a spillo e agli occhi dal trucco pesante delle ragazze di strada.
«Entra», la invitò Annie. Aveva di nuovo avvolto i capelli in uno chignon. Le donava quella pettinatura, le addolciva il viso.
Marian lo sentì subito, non appena ebbe oltrepassato la porta: Annie sapeva di liquore.
«Annie, sono preoccupata per te. Che cos’ha Fanny?»
«Niente, è fatta così».
Marian notò che le labbra di Annie avevano un aspetto morbido e umido. C’era quasi qualcosa d’erotico nel suo modo di presentarsi e si intuiva il seno attraverso l’ampia maglia bianca.
«Ho preparato pecora e cavolo», disse. «Vieni in cucina e siediti. Mi sarebbe piaciuto cenare con Fanny, ma lei non mangia carne e non ha neppure voluto il vino, perché aveva intenzione di fare jogging sulla via di ritorno verso casa. Segue un corso di difesa personale, è davvero fanatica. A proposito, scusami per quella telefonata».
«Capisco che tu voglia che abbandoniamo il caso». Marian deglutì. «È una dura prova per te. Ma in realtà sono passata per chiederti di ricontrollare se quegli uomini sono stati da voi al Reparto d’emergenza psichiatrica».
«Nel sistema non sono registrati. Ho controllato accuratamente».
Si scambiarono un sorriso fugace, poi Annie proseguì: «Ti andrebbe qualcosa da mangiare?»
«Ne prendo volentieri un po’», rispose Marian, guardando il tavolo apparecchiato.
Chiacchierarono del più e del meno mentre mangiavano. Annie bevve acqua e Marian pure.
«Puoi dirmi cosa ne pensa la polizia degli uomini elencati nel biglietto che ho trovato? Non mi pare che abbiano niente a che fare con Lovisenberg. Mi sembra di vedermi quei quattro nomi davanti agli occhi».
«E tu che ne pensi, Annie?».
Annie si passò stancamente una mano sulla fronte. «Dio mio, ho bevuto troppo. Penso che non ci capisco niente. Sembra un incubo. Credo di non essere stata una buona madre».
Marian inghiottì. «Dev’essere stato un paziente a scrivere quel biglietto, non credi?»
«Ma era nella stanza del personale, dentro una Bibbia. Ho chiesto a tutti i colleghi e nessuno l’ha vista. Vuoi che controlli nel registro dei pazienti? Ma chi dovrei cercare? La gente non resta da noi a lungo, qualche giorno al massimo, poi vengono mandati a casa, o ricoverati nel reparto più adatto».
«Non saprei», sospirò Marian. «Io dovrei occuparmi di Thona e di scoprire cosa le è successo».
«Io lo so che è morta», sospirò Annie. «L’unica cosa che mi consola, è la consapevolezza che i morti non desiderano tornare indietro».
Marian la guardò. «John era davvero così male come lo hai descritto? Lavori in un reparto psichiatrico, ma forse anche tu avresti bisogno di aiuto».
«Che impressione ha fatto a Tønnesen? Cathryn in fondo è riuscita a resistere con lui».
«Gli è sembrato a posto».
«Forse ero io ad avere qualcosa di sbagliato. Ho sempre custodito la speranza che una delle nuove figlie di John fosse Thona. Una speranza infantile e sciocca, un sogno».
Marian non aveva menzionato il fatto che John Johansen aveva detto di non credere di essere il padre di Thona. Perché in realtà lo era. Ripensò a come Elly aveva descritto Thona, paragonandola a un insetto e aggiungendo che non era affatto buona. Annie aveva detto che la figlia non aveva molte amiche, ma forse era una cosa normale per una bambina di sei anni.
«Mi piacerebbe parlare con qualche insegnante dell’asilo di Thona», disse Marian. «C’erano altre persone che la conoscevano?».