19
In fondo al corridoio c’era una finestrella. Se fosse riuscito a uscire dal mobile e a spingersi fuori da quell’apertura, sarebbe caduto sul tetto piatto dell’officina. Oltre al portone del garage, c’era una porta d’ingresso anche vicino alla finestra del salotto. Andreas l’aveva vista la sera in cui erano arrivati, prima che il furgone entrasse nel garage. C’erano dunque tre vie d’uscita possibili.
La tortura era stata talmente atroce che il cervello tentava di bloccarne il ricordo. Se mai fosse tornato a casa, i genitori non avrebbero dovuto sapere niente. Era assurdo pensare a certe cose adesso, pensare che i genitori non dovevano sapere. Gli tornò in mente l’ultima serata con gli amici. Il juke-box del London Pub aveva esercitato su di loro un’attrazione magica. C’erano entrati per scherzo, tanto per dare un’occhiata, sulla strada di ritorno verso casa. Loro non erano omosessuali. Lui non era omosessuale. Non era quello il problema. Ripensò alla luce rossa, alle facce dei suoi amici illuminate dalle due lampadine rosse. Non sapevano niente di lui. Il juke-box era come una vetrina, il foglio con i nomi delle canzoni aveva la forma di un ventaglio. Chinandocisi sopra, si avvertiva la musica nel corpo.
Mise le mani a coppa e le posizionò davanti alla bocca. Nel voltarsi avvertì una fitta alle ossa del bacino. L’uomo aveva tolto i cocci del vaso di porcellana, ma Andreas aveva nascosto quello più lungo e tagliente sotto il tappeto. Quella era solo l’anticamera dell’inferno. Lo avevano già messo su quell’atroce sedia tre volte e si era reso conto che, se ve lo avessero lasciato più a lungo, sarebbe morto.
Tirò fuori il frammento affilato. Se fosse stato svelto, avrebbe potuto cogliere di sorpresa l’uomo e piantargli quello spuntone dritto in gola. Lo avrebbe fatto la prossima volta che avesse aperto la porta.
*
Karsten Tønnesen rallentò davanti a una ruspa. Marian Dahle diffondeva nell’auto un aroma dolce, accompagnato da una nota di qualcosa che poteva essere profumo o alcol.
La benna picchiava contro l’asfalto. «Lavori stradali», commentò lo psichiatra. «Non fanno che scavare in questa città».
Aveva collaborato con la polizia alla risoluzione di casi di omicidio per più di quarant’anni. I giorni da pensionato non erano stati esattamente come se li aspettava. Aveva dei nipotini e la moglie adorava invitarli a casa loro, ma lui si stancava presto di sentirli sbraitare. Era bello avere di nuovo un incarico. Non vedeva l’ora di conoscere la madre della bambina scomparsa e di riprendere il lavoro a pieno ritmo. Marian dimostrava più anni di quelli che aveva e appariva scostante, come se dicesse agli altri “non credere di poterti prendere delle confidenze”, ma al contempo chiedesse una profonda intimità. Era coraggiosa, ma aveva anche paura. Tønnesen era abituato a cercare di decifrare le persone e riteneva che quella sarebbe stata un’esperienza interessante.
La coda avanzò leggermente. Non doveva essere stato un incidente da poco quello che le era capitato. Certo non poteva leggerle nel pensiero, ma si vedeva che tutte le sue energie erano volte a difendersi. Avrebbe potuto rivelarsi una sfida non indifferente. Marian parlava come un verbale di polizia, cosa che confermò un attimo dopo: «Ho anche letto Guarire dal trauma di Judith Herman. Ho letto diverse cose», precisò.
«Sulle vittime?»
«Sì».
Un uomo dal giubbotto arancione gli fece cenno con la mano che poteva passare. Tønnesen schiacciò l’acceleratore. La sua auto era vecchia e lenta. «Il trauma psichico è un tipo di disagio che colpisce le persone più deboli», dichiarò. «È un bene che tu conosca la materia di cui ti occupi».
Marian proseguì: «Nel momento in cui insorge il trauma, la vittima diviene impotente di fronte a un potere che la sovrasta. Se questo potere è una forza della natura, allora si parla di catastrofe; quando il potere è esercitato da altre persone, si parla invece di atto violento. L’ho preso direttamente da quel libro. Tu lo sai bene, è una specie di bibbia».
Tønnesen annuì. «Vittima è la definizione giusta per Thona, qualunque cosa le sia capitata».
Dopodiché Marian disse: «Il figlio di Myrtel è un alcolizzato; la nuora era un’infermiera molto diligente nel proprio lavoro, stando a quel che dicono i documenti, ma dopo aver incontrato il figlio di Myrtel, cominciò a rubare pasticche al lavoro e divenne lei stessa tossicomane. E così è morta».
«L’alcolismo innesca meccanismi potenti. Il motivo per cui non bevo, è che ho un figlio che ha avuto problemi con l’alcol». Tønnesen si passò la mano tra i capelli arruffati.
Marian lo guardò. «La gente vive, poi muore», disse. «Scoprire come è il nostro mestiere».
*
Entrarono nel Reparto d’emergenza psichiatrica. Marian riconobbe Dan Brodahl non appena oltrepassarono la porta. Indossava un camice bianco da medico che gli dava già di primo acchito un’aria meno virile.
«Annie oggi non è al lavoro», spiegò. «Ha dovuto sopportare troppo stress ultimamente». Guardò l’orologio. «Devo scappare di sopra. Ho appuntamento con un paziente. Scusatemi. Tornate domani».
Marian e Tønnesen ripresero la macchina per andare agli orti comunali.
«Pensavo di telefonare ad Annie per fissare un incontro a casa sua», disse Marian. «Vorrei vedere come vive».
Tønnesen entrò con la macchina dal cancello aperto e parcheggiò di fronte alla casa rossa. Nessuno aprì quando bussarono.
Si sentiva tubare dalla piccionaia, che si trovava a meno di trenta metri dalla casa. Marian e Tønnesen vi si avvicinarono. Gli uccelli erano chiusi all’interno da una rete metallica a maglie larghe che bloccava l’uscita. In uno dei documenti c’era scritto che il cane poliziotto che era stato sguinzagliato alla ricerca della bambina aveva fiutato qualcosa vicino alla piccionaia, ma, quando lo avevano fatto cercare una seconda volta, non aveva fiutato niente. Gli escrementi degli uccelli avevano un odore troppo forte.
Tønnesen voleva vedere il punto in cui le bambine avevano giocato con la palla e Marian glielo mostrò. C’era una carriola sul posto, piena di foglie, sporcizia e grosse zolle di muschio. Uno stormo di corvi si levò in volo da uno dei pioppi.
I girasoli dietro allo spaventapasseri avevano gli steli fibrosi, marroni al centro, e le corolle verde pallido arricciate. Uno sgradevole tanfo di marciume penetrava le narici. A terra c’era una zucca che sembrava finta e a un piccolo albero con un buco nel tronco era poggiata una vanga appuntita.
*
Dal capanno buio Myrtel Haug scrutava i poliziotti. Allora era tornata con un collega, quell’uomo alto dalla capigliatura grigia. Erano accanto allo spaventapasseri. Questa volta il cane non c’era.
Scosse un lombrico dal guanto pieno di terra e posò il vaso su una delle traversine che formavano il pavimento, coperto dagli escrementi verdastri delle galline. Un paio le si erano attaccati alle suole degli stivali. Detestava che la polizia si aggirasse lì dentro. Glenn sarebbe potuto diventare pericoloso, qualora se ne fosse accorto. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Erano passati quindici anni dall’inizio di tutta quella storia, ma se la ricordava come fosse stato ieri. Non ne parlavano mai, lei e la bambina, di come erano andate le cose quel giorno. Le immagini delle piante, degli alberi e dell’erba, tutto si trasformava in un’enorme ruota verde che girava all’infinito nella sua testa. E gli alberi pullulavano di uccelli neri che sembravano lì per spiarla. Il primo anno era stato una totale catastrofe. Poi era tornata l’estate, con i riquadri di sole sul pavimento in legno del piccolo soggiorno e l’acqua che scorreva nelle fontane. Sugli alberi erano sbocciate le gemme, il cielo si era fatto di un azzurro intenso e sui cespugli di rosa canina erano spuntate delle foglioline dentellate. Cominciarono a creare un erbario. Elly poteva prendere tutte le piante che voleva, da tutti gli orti. Una volta un uomo si era lamentato perché la bambina aveva raccolto un fiorellino nella sua aiuola. Allora Myrtel Haug era andata su tutte le furie e gli aveva detto che quel terreno apparteneva a lei. Così infatti aveva l’impressione che fosse, anche se in verità era solo una dipendente comunale.