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Il problema era che perseguitare qualcuno richiedeva una notevole dose di energia. E quello che stava facendo adesso non era che un procrastinare, una sofferenza. Ma era una sua abitudine, quella di rimandare sempre tutto. Presto le cose sarebbero migliorate. Le sue azioni erano guidate da pensieri su cui lui non aveva alcun controllo. Arrivare fino a lì, in quella bassa soffitta, aveva invece richiesto un tipo di preparazione alquanto deleteria per lui. Le cose gli giungevano da ogni lato, in maniera del tutto indipendente dalla sua volontà. Adesso era lì, nel buio. Aveva evitato di accendere la torcia, perché la luce non filtrasse attraverso le fessure del sottile pannello fino alla stanza di lei. C’era infatti un pannello sulla parete che conduceva alla sua camera da letto. Era rimasto a lungo sdraiato in ascolto, ma ormai era da un po’ di tempo che si era fatto silenzio. Accese la luce del cellulare e guardò l’orologio. Ormai stava di sicuro dormendo. Agguantò il coltello.
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Marian si accomodò meglio a sedere nel letto e tirò un po’ più su il cuscino. Tønnesen le aveva inviato un MMS con la foto di Cathryn, John Johansen e le loro due figlie. Erano tutti corpulenti, con i capelli rossi. Marian sentì riecheggiare dentro di sé la voce di Elly. Ma Thona era più un insetto che una farfalla.
Digitò ancora una volta l’indirizzo degli orti di Geitmyra e selezionò lo street view. Poteva rigirare la prospettiva come voleva, era affascinante. Zoomò su un puntino e si accorse che era Myrtel Haug. Non che riuscisse a vederne il viso, ma riconosceva l’abbigliamento. Era indaffarata vicino allo spaventapasseri. Una sensazione sgradevole le pervase lo stomaco. C’erano molti aspetti di quella donna che non le piacevano. Era senza dubbio lei la bugiarda. All’improvviso sentì grattare. All’inizio in maniera lieve, poi più evidente. Era un rumore che proveniva dalla soffitta.
Marian posò il bicchiere sul tavolino da notte, scostò il piumino e andò a inginocchiarsi vicino all’armadio, respirando dalla bocca, senza prendere aria dal naso. Per qualche breve momento si faceva silenzio là dentro, poi il rumore ricominciava. Magari era un uccello entrato per sbaglio da una fessura. Ma gli uccelli non volavano mica di notte? Diede un’occhiata nell’armadio. I vestiti erano disposti in pile ordinate gli uni sugli altri. Le sue belle scatole erano dritte al loro posto. La parete posteriore dell’armadio non era altro che un sottile pannello di truciolato. Rimase seduta in ascolto per alcuni minuti. Ora tutto taceva. D’istinto, come obbedendo a un segnale prestabilito, tolse la scatola con il rivestimento a fiori e aprì il coperchio. Frugò rapida con le mani tra i vestiti da bambina ripiegati con cura. Quella scatola aveva un doppio fondo, quindi doveva togliere prima tutti gli abitini. Ne accarezzò con le dita uno che aveva una fitta serie di lacci e poi tirò via il fondo della scatola. C’era il documento che dichiarava la sua innocenza, insieme a una vecchia scheda di valutazione. Era scritto nero su bianco. Dall’Unità investigativa speciale: Non è stato rilevato niente di sospetto. Era stato Farhi Salman a firmare la dichiarazione. Marian richiuse la bocca, sollevò il viso e si sentì rabbrividire. Fissò la parete sopra l’armadio. Allora era lui. L’Unità investigativa speciale entrava nelle case per scattare foto e documentare tutto. Salman in passato aveva lavorato per i servizi segreti, poi nell’Unità investigativa speciale, che era un’organizzazione indipendente facente capo al Dipartimento di Giustizia. E ora era alla Kripos. Ma ci lavorava davvero, oppure l’incarico del cold case era una trappola? Posò la scheda di valutazione e la lettera. Volevano coglierla in fallo per poterla incastrare una volta per tutte? Per mostrare che tipo di persona fosse in realtà e cacciarla dalla polizia? Si mise di nuovo in ascolto. La soffitta era ancora immersa nel silenzio. I vestiti tornarono al loro posto, la scatola venne richiusa e riposta dentro l’armadio. Farhi Salman era un nemico. Lo sarebbe stato da lì in avanti. Si alzò e tornò a letto, rannicchiandosi in posizione fetale sotto il piumino. L’anta dell’armadio era rimasta aperta, così avrebbe sentito meglio, se ci fossero stati altri rumori.
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Annie entrò dalla porta principale. Tutto era tranquillo nel reparto. La luce, abbassata a un’intensità media, faceva risaltare l’insegna dell’uscita d’emergenza. In fondo al corridoio scorse una schiena che spariva in una delle camere. Aprì lentamente la porta. Nella stanza del personale non c’era nessuno e il foglietto era ancora infilato tra le riviste sotto il tavolino. Gli diede una rapida occhiata: l’ultimo nome era Hallgrim Schavenius. Lo infilò in borsa e uscì.
Sgusciò dentro l’ufficio, un po’ più avanti nel corridoio, e accese il computer. Lasciò spento il lampadario, perciò la luce dello schermo tinse la stanza di blu. Tenne addosso il soprabito. Nel sistema non trovò Andreas Lindeberg, né Gustav Joner e neppure Schavenius. Non li avevano mai avuti come pazienti nel Reparto d’emergenza psichiatrica. Su Glenn Haug aveva già controllato prima, d’impulso. Uscì dal sistema e spense il computer.
Trasalì, quando Fanny comparve all’improvviso nel vano della porta.
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Alla fine Marian si appisolò, seduta sul letto, e la testa le ricadde su un lato. I documenti scivolarono senza far rumore sul pavimento. Sognò. Si librava sugli orti, osservandoli da una prospettiva a volo d’uccello, ispezionandoli con una vista a raggi X. Non lontano dallo spaventapasseri scorse una macchia bianca, una bambina con indosso solo dei calzini di pizzo e nient’altro, stesa senza vita sull’erba carica di pioggia. Il bagliore verde del fogliame la circondava come un’aureola. Alcuni piccioni le si posarono accanto e cominciarono a beccarla.
Marian sollevò bruscamente la testa e spalancò gli occhi. Era stato Farhi Salman ad archiviare il suo caso tempo prima. Il sogno volò via, come un foglio di carta strappato in tanti piccoli frammenti catturati dal vento. Le giunse il bip di un SMS dal cellulare sul comodino. Gli diede una rapida occhiata. Era di Tønnesen. “Ti chiamo appena possibile. C’è molto da fare qui all’altro lato dell’equatore”.
Poi lo sentì di nuovo: c’era qualcuno che grattava là dentro, dietro all’armadio. Piano, con qualche attrezzo. Era passata la mezzanotte.
Sgusciò di nuovo fuori dal letto, respirando dalla bocca. Si sentiva come se qualcuno le avesse conficcato un chiodo nella nuca. Sollevò le mani verso il collo, per sentire il sangue che pulsava nella carotide, si chinò e guardò attraverso il foro. Era quasi buio, ma si scorgeva anche qualcosa di bianco. Poi si rese conto di star guardando dritto in un occhio.