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Hallgrim Schavenius osservò la donna sulle scale. Sulla testa portava qualcosa che era una via di mezzo tra un cappello di feltro e un foulard. Si guardava intorno nervosa e sembrava leggermente a disagio. Hallgrim pensò che avrebbe dovuto chiuderle la porta in faccia, ma si sentiva stremato dopo tutto quello che era successo e così lasciò perdere. Non gli piaceva l’atteggiamento di quella donna dal cappotto sdrucito e gli stivali da neve neri, ma quando lo guardò dritto negli occhi e gli disse di essere un avvocato della sezione per i reati sessuali contro i minori e che erano giunti a una conclusione a lui favorevole, avvertì un grande sollievo.
«Molto bene. Entra, prego», la invitò tenendole la porta aperta.
Voleva dire che la polizia aveva cominciato a occuparsi delle formalità, per fortuna prima che la stampa fosse venuta a sapere alcunché. In mano la donna aveva una borsa, che posò fuori dal bagno. Non si tolse invece il copricapo. Il tempismo era perfetto, visto che Sonja era a quello stupido club. Lei non capiva affatto come si sentisse, quanto fosse solo. Poco prima era stato di sopra e aveva guardato la fila dei suoi abiti nel guardaroba. Era davvero viziata, ma non aveva osato essergli sleale.
Non voleva far entrare quella donna in salotto. «Siamo quasi a ottobre ormai», si scusò, «e la casa è fredda. Vieni in cucina e togliti pure il cappotto».
«Non ce n’è bisogno, non mi tratterrò a lungo», rispose lei. «Quando rientra tua moglie?»
«Tra un’ora».
Le telecamere di sorveglianza montate sul garage vicino al cancello erano finte. Lo avevano verificato da tempo. Come sarebbero riusciti e portare quel vecchio bestione fuori e poi fin dentro il furgone? Dovevano sfruttare il momento, adesso che era solo in casa.
«Tutto sembrerebbe propendere verso un’archiviazione del tuo caso», ripeté la donna.
«Si capisce. Non ho fatto niente di male».
Tutte le copie delle lettere che aveva mandato al figlio e alla nuora erano bellamente disposte in ordine alfabetico sulla scrivania del salotto. Neanche a una avevano risposto.
«Vuoi accomodarti un attimo a sedere?».
La donna si sedette al tavolo della cucina. Sotto il cappotto aveva la bomboletta spray, infilata nella cintura del vestito che aveva indossato per l’occasione. Il sudore le colava dal collo lungo la schiena. Sentendo il silenzio di quella grande casa, si immaginò il nipote di Schavenius. La cucina era arredata con pesanti mobili in legno marrone scuro, indubbiamente costosi, ma di pessimo gusto. Gettò uno sguardo fuori dalla finestra, nel vasto giardino simile a un parco con i suoi antichi alberi maestosi. Quella vecchia area residenziale era formata da ville circondate da enormi giardini. Il furgone era fuori, lungo la strada.
Hallgrim Schavenius fissò la donna mentre lei gli diceva che il nipote non era attendibile, che lo avevano colto a mentire anche su altri fatti. Lo sguardo della donna era vagante.
«E cioè quali?», chiese Schavenius. «Puoi farmi un esempio?»
«Ha detto di avere un cane», mentì lei. L’importante era dire le cose giuste. Tutti i bambini desideravano un cane, perciò una storia come quella poteva facilmente apparire verosimile. Lui non scoprì l’inganno, anzi cadde dritto nella trappola. Le chiese di nuovo come si chiamasse e lei rispose Inger Andersen. Era un nome che non gli avrebbe detto niente e in ogni caso sarebbe morto e non avrebbe avuto modo di parlarne con nessuno.
La conversazione era arrivata a un punto morto. Sarebbe stato il momento di agire, ma lui proseguì con le sue giustificazioni pompose. «Sono un uomo all’antica, amante dell’ordine e della legge». Lo disse quasi come una battuta, ma non c’era niente di divertente in quella situazione. Le grosse mascelle vibrarono. «Né io né mia moglie abbiamo parlato con nostro figlio o nostra nuora da quando hanno architettato questa terribile menzogna», proseguì Hallgrim Schavenius. «Ho condannato un buon numero di delinquenti. Mentre ero in carica mi è capitato due volte di essere minacciato e perseguitato. Conosco la vera natura dei criminali. Le buone maniere a quanto pare non sono più di moda. Gli avvocati di oggi non hanno nessun orgoglio né vergogna e difendono chiunque, persino i terroristi e le canaglie della peggior specie. Io questo non lo capisco».
Posò sul tavolo la mano grassa e lei notò che il palmo era sudato e che il sudore stava contaminando la superficie del tavolo.
Gli occhi pesanti rilucevano scialbi sotto le sopracciglia cespugliose.
«Scusami», fece lei dando un’occhiata distratta all’orologio. «Posso usare il bagno?».
Una volta in bagno, si tolse il vestito e il copricapo e li infilò nel borsone, da cui scivolò fuori una benda arrotolata. Poi indossò abiti diversi, di modo che chi l’aveva vista entrare non potesse riconoscerla. Si soffermò con lo sguardo sulla mensola in vetro con i flaconi e le boccette di profumo. Una aveva una pompetta a palloncino e a un gancio era appeso un kimono giapponese. Prese il cellulare e inviò un messaggio al furgone. “Via libera per entrare tra due minuti esatti”. Poi uscì dal bagno, lasciò cadere la borsa a terra, socchiuse il portone esterno e preparò la bomboletta spray dietro la schiena.
Quando tornò in cucina, sul tavolo c’erano due bicchieri d’acqua.
Il giudice la guardò stupefatto. Un’espressione primitiva si dipinse sul suo volto.
«Qual è il vero motivo per cui sei venuta?», domandò. «A un tratto ho l’impressione che tu mi disprezzi. Non sei la persona che mi hai fatto credere».
*
Marian stava lavorando da casa, nonostante si sentisse ben riposata. Era una sensazione nuova per lei, non aveva dolori. Forse aveva bisogno di dormire di più? Riposarsi e ascoltare il proprio corpo, prendere la vita con calma.
Scese di sotto, prese dei ceppi di legna dalla catasta poggiata contro il muro della casa e li usò per accendere il fuoco nella stufa. Poi tirò fuori pane e affettati e ne mangiò due fette restando in piedi. Contro le formiche le avevano suggerito di usare un composto di farina e zucchero a velo. Le formiche morivano se ingerivano farina. Ne sparse dei mucchietti qua e là per la casa. Aveva anche letto della bibita Fun Light. Avrebbe dovuto comprarla. Le sostanze edulcoranti erano veleno per le formiche e questo diceva molto di quanto certi dolcificanti artificiali fossero dannosi, anche per gli esseri umani.
Ne arrivò subito una, ma Birka la batté sul tempo e nel giro di pochi secondi leccò tutti i mucchietti di farina. Marian schiacciò la formica con il piede, la raccolse con un pezzetto di carta e la sciacquò via nel lavello. Al solo pensiero di come forse continuavano a muoversi nel sacchetto dell’aspirapolvere le veniva la nausea. Ne aveva aspirate alcune quella mattina, cercando di contarle. Erano all’incirca una quindicina e non centinaia come si era immaginata.
La regina poteva vivere fino a trentanove giorni e deporre quattromilacinquecento uova. Erano onnivore, ma avevano una speciale predilezione per le sostanze dolci e i cibi ad alto contenuto proteico. Le formiche faraone potevano essere portatrici di malattie. Trasmettendosi dei segnali tra di loro, guidavano il gruppo nel punto in cui si trovava del cibo.
Marian aveva terminato i sacchetti dell’aspirapolvere. Forse quelle piccole bastarde dalle zampette brulicanti intuivano il pericolo per via telepatica. In tal caso sapevano di avere il via libera adesso.
La chiamò Tønnesen. «Sto venendo da te. Sei in ufficio?». Il solido dialetto dell’Arendal risuonava come una melodia attraverso il telefono.
«Sto lavorando da casa anche oggi. Ho bisogno di tranquillità per leggere con attenzione i documenti. La soluzione potrebbe nascondersi nei più piccoli dettagli, ma questo lo sai bene. Prendiamoci il fine settimana libero. Non potresti venire da me lunedì invece di oggi?». Avrebbe potuto dirgli che si sentiva braccata. Magari poteva aiutarla senza che Cato venisse a sapere niente. Collaborare con Tønnesen non era poi così male, le faceva ricordare perché avesse scelto di fare la poliziotta.
«Ha telefonato “Aftenposten” per un aggiornamento. Immagino abbiano chiamato anche Annie Ormberg Johansen. Potresti fare tu una chiacchierata con il giornale?»
«Non devono chiamare Annie, è già allo stremo. Hai detto loro che potevano chiamarla?»
«No, ma è un bene che scrivano del caso sui giornali. Più scrivono, più informazioni riceveremo dalla gente. Risolveremo questo caso, Marian. Tu e io».
«Io non voglio comparire sui media, mi sembrava di essere stata chiara. La gente fa un sacco di commenti del cazzo sul mio viso sfigurato».
«Ok, me ne occuperò io allora, in fondo te l’avevo promesso. Ma non abbiamo niente di entusiasmante da comunicare».
Quattro ore più tardi, quando ormai si era fatto buio, Marian sentì un tonfo provenire dal piano di sopra. Come se un uccello avesse sbattuto sulla torre. Ma gli uccelli non picchiavano contro i vetri delle finestre quando era buio, perché gli alberi si rispecchiavano sui vetri solo con la luce del giorno.
Forse il rumore proveniva dalla soffitta, da dietro l’armadio. Salì piano la scala in acciaio, si inginocchiò davanti all’anta dell’armadio, la aprì e si mise in ascolto, ma avvertì solo silenzio. Nient’altro che silenzio. Due ore dopo si spogliò e si mise a letto. Decise di dormire e dopo un po’ ci riuscì.