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Marian infilò il cellulare in tasca e si incamminò lenta lungo lo steccato, verso il cancello. Il cuore batteva a un ritmo irregolare. Cosa voleva dire quella telefonata? Si lanciò delle rapide occhiate alle spalle, stringendo la mano intorno alla bottiglia di Fun Light come se fosse un’arma e poi scrutò la casa tra gli alberi quasi spogli e la siepe di lillà. La facciata in legno, debolmente illuminata dalla lampada esterna, avrebbe avuto bisogno di qualche mano di vernice qua e là. Per un attimo le si oscurò la vista e sentì i muscoli irrigidirsi intorno al cranio.
Aprì la porta. Forse avrebbe dovuto avvertire qualcuno? Telefonare al numero per le emergenze? Birka la precedeva con le zampe rigide divaricate. Arrivò una breve folata di vento accompagnata da una scrosciata di pioggia. Le poche foglie che restavano sugli alberi furono strappate via. Birka stava annusando qualcosa vicino al tavolo in ferro. Io so dove vivi. Non doveva lasciarsi sopraffare dalla paura. Pensò ad Attrazione fatale e a Basic Instinct, film che avevano come protagoniste donne psicopatiche. Ma non era stata una voce femminile a pronunciare quelle parole al telefono. E allora perché le veniva da pensare a una donna?
Il pomeriggio in cui Annie era andata da lei con il biglietto, c’era qualcuno dietro alla fila di macchine parcheggiate. Lo aveva visto dalla finestra. Un movimento, qualcosa che le aveva fatto pensare a un’ala nera, ma che in realtà era un uomo con un cappotto. Era qualcuno che la stava sorvegliando.
Restò giù in giardino con lo sguardo sollevato verso le finestre del proprio appartamento. Era tutto al buio anche in casa dell’artista. Dalla vecchia signora del pianterreno brillava solo una fievole luce dietro alle tendine di merletto. Marian aveva paura. Ed era una sensazione che detestava. Guardò in alto, la facciata di quella casa che somigliava a una chiesa medievale norvegese in legno.
Forse lui era dentro e la stava aspettando sulle scale. Sarebbe accaduto tutto molto in fretta, lei non sarebbe stata in grado di difendersi e la vecchia non avrebbe potuto aiutarla. Forse poteva nascondersi in giardino e aspettare un po’ prima di salire. Un’altra sensazione, oscura e seducente, si impadronì di lei per un istante, una sensazione che era come una corda tesa nel corpo. Chi era l’uomo che la stava aspettando? Le balenò rapida nella mente l’immagine di se stessa nuda. E si era spogliata da sola.
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Ora lei era proprio davanti casa. C’era odore di muffa e marciume lassù. Sdraiato nella soffitta, la sentiva muoversi laggiù in basso. La vecchia grondaia pendeva sporgente, occludendo la visuale attraverso la fessura. Vi stava scorrendo dell’acqua. Lui era sdraiato in un’estremità della soffitta, nel punto in cui il tetto a spiovente e il pavimento si incontravano. Attraverso le fessure della trave del tetto aveva sentito il cigolio dei cardini quando lei aveva aperto il cancello e poi lo scricchiolio della ghiaia quando era entrata in giardino. Si era riconosciuto in lei, per come si voltava a fissare qualcosa, mentre camminava ignara lungo la strada. Per come sedeva sul proprio letto la sera, nella torre, credendo di essere al sicuro. Quando dormiva e non sapeva che lui era lì. Non aveva mai fatto niente del genere prima, non aveva mai perseguitato qualcuno in quel modo. Le aveva telefonato al momento giusto. Strinse la mano sul cellulare. Sentiva il mazzo con le due chiavi premere appuntito nella tasca. Sdraiato su un sacco di iuta, illuminò con il cellulare il soffitto e osservò i motivi che si stagliavano nel legno grezzo. Faceva un freddo gelido. Quasi più che fuori.
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I pannelli di vetro del vecchio portone d’ingresso vibrarono rumorosi quando aprì. Negli occhi le bruciavano le lacrime, per la specie di vergogna che aveva provato di fronte alla sensazione improvvisa che l’aveva colpita all’inguine. C’era odore di cibo nelle scale, un odore nauseabondo, come di pesce lesso. Non sarebbe stata una mossa molto furba restare tagliata fuori dal mondo, se c’era qualcuno ad aspettarla. Tenne il telefono pronto. Digitò il numero per le emergenze, a portata di mano per qualsiasi evenienza.
C’era un vecchio passeggino sdrucito sotto la fila delle tre cassette per le lettere. Era di tipo sportivo, risalente agli anni Sessanta. Pensandoci bene, ricordò di aver visto l’artista utilizzarlo per trasportare sculture. Nel passeggino c’era un cumulo di volantini pubblicitari. La vecchia signora doveva aver aperto il portone a qualcuno, perché di solito il ragazzo dei giornali gettava la pubblicità e i quotidiani sui gradini in pietra fuori dalla porta.
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Adesso la donna era nella tromba delle scale. Udì la sua vocina tenue chiamare il cane. Si rigirò leggermente, per trovare una posizione più confortevole. Gli facevano male i fianchi. Era per via del mazzo di chiavi. In un punto le rondini avevano costruito un nido, ma ora era vuoto. Le rondini non erano uccelli invernali. Aveva provato piacere nel sentire la paura nella sua voce. Le telefonò di nuovo e ascoltò lo squillo della suoneria nelle scale, ma lei non rispose.
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Birka le trotterellava davanti su per le scale. Nel vaso blu cobalto del pianerottolo c’erano dei fiori, lunghi steli marroni mezzi avvizziti presi dal giardino. Marian sentì il sangue esploderle in gola. Le aveva telefonato un’altra volta. Doveva chiedere aiuto! Suonò alla porta dell’artista e le sembrò di udire dei passi all’interno, ma nessuno venne ad aprire. Accostò l’orecchio ed ebbe l’impressione di sentirlo respirare dentro casa. Trattenne il fiato. Forse quelli che aveva sentito non erano passi, ma i battiti del proprio cuore? In quel momento la porta si aprì di scatto e le si parò davanti una donna, bella e formosa, con un grande asciugamano verde avvolto intorno al corpo. Sembrava uscita dalla foto di una rivista.
«So chi sei», disse guardando Marian. «Sei la vicina, non è vero? Ora però siamo occupati, gli sto facendo da modella».
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Si tirò su a sedere e spinse via un rotolo di materiale isolante. Poi compose di nuovo il numero. Il cellulare non faceva che squillare, lo sentiva persino da lassù, ma lei non rispondeva. La polizia avrebbe potuto fare una ricerca tra le antenne per la telefonia e scoprire chi era che aveva chiamato da quella casa. Per questo usava un cellulare rubato, non era certo tanto stupido da farsi beccare. Sarebbe morta, quella poliziotta che andava a ficcare un po’ troppo il naso in affari non suoi e che era troppo malata per lavorare. Ma abbastanza in salute per morire.
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Nell’ingresso ebbe di nuovo la stessa impressione. Che qualcuno fosse entrato in casa. Aveva dimenticato di mettere la pallina di stagnola nello stipite della porta, ma avvertiva un odore a lei sconosciuto. Non era dopobarba o profumo, ma piuttosto un puzzo sgradevole. Diede uno sguardo in salotto. La candela non era accesa e neppure la stufa. Faceva un gran freddo nell’appartamento. Restò per un po’ perplessa, poi svitò il tappo della Fun Light e la versò in piccole dosi lungo il battiscopa della cucina; posò la bottiglia, tornò nell’ingresso e si sfilò gli stivali di pelliccia bagnati. Le piccole pozze di bibita accanto al bancone della cucina sembravano sangue. Appese la giacca a un gancio, ripensando a quello che le aveva detto Cato, che avrebbe dovuto prendersi del tempo libero. Forse era vero, ma in quel momento casa sua sembrava il posto più pericoloso. Per non parlare della sensazione morbosa che aveva avuto poc’anzi; quando una donna maltrattata si sentiva minacciata, poteva scatenarsi il desiderio di un partner fisicamente aggressivo.
Lei era minacciata. E l’artista aveva delle donne nude in casa. Avrebbe potuto posare per lui come modella, e lui avrebbe potuto spogliarla. Ma naturalmente si sarebbe aspettato che si spogliasse da sola. Quell’uomo che l’aveva minacciata al telefono, era forse solo uno scherzo? Poteva essere stato l’artista? Ne aveva riso insieme alla donna dell’asciugamano? Ora forse erano insieme a ridere dentro casa?
Controllò la camera della torre. Tutto era in ordine. Mise la legna nella stufa rotonda e accese anche la candela di Clas-Ohlson, tirando giù il maglione di lana fino alle cosce. Poi andò a prendere un bicchiere d’acqua, che si rovesciò non appena lo posò sul tavolo. Maledetta acqua del cazzo. Tremante, prese uno strofinaccio per asciugare. Era ovvio che l’artista avesse bisogno di modelle per le proprie sculture. All’improvviso provò un forte senso di perdita. Naturalmente non l’avrebbe mai voluta come modella. Suo padre le aveva promesso di portarla al cinema. Aveva otto anni e aveva atteso trepidante per tre giorni, ma poi la mamma aveva detto di no. La sua vita non era affatto una vita e tantomeno un’avventura da romanzo. Era vuoto e solitudine. L’intensità delle proprie emozioni la spaventò. Si mise a sedere e il cane le si avvicinò. Marian si chinò e baciò la bestiola sulla fronte. Poi andò alla finestra.
Di sotto, lungo la strada, stava passando un uomo con un bambino sulle spalle. A quell’ora? Le doleva la testa. La voce al telefono era una voce terrificante, piena di odio, con un’eco rude. Al lavoro le era capitato spesso di ascoltare voci camuffate. Nel corso di intercettazioni telefoniche, durante gli interrogatori. Premendo la mano sul pomo d’Adamo, si poteva rendere la voce irriconoscibile. Una volta era riuscita persino a riconoscere la voce di un uomo che aveva la laringite. La laringite veniva provocata da un’infiammazione o da un uso eccessivo delle corde vocali. Inoltre si doveva tener conto dello stress, che poteva causare reflusso gastrico nella gola. La voce al telefono era metallica e falsa, contraffatta.
Marian andò a prendere un Vicodin. Aveva dovuto telefonare per farsi fare una nuova ricetta. E poi tirò fuori la bottiglia di gin comprata tre giorni prima, ma l’alcol le dava dei sintomi simili a quelli dell’ulcera, perciò doveva cercare di smettere. Quella donna in casa dell’artista… era da tanto tempo che non andava con un uomo e l’ultima volta tutto si era svolto in maniera rigida e impacciata. Non era mai riuscita a lasciarsi trasportare completamente, cercava di tirare su il piumino per coprire i piccoli seni. E ora sarebbe stato ancora peggio, con quella cicatrice che le scendeva dal volto verso il petto. Sarebbe stata sola, non c’erano alternative, ma finalmente comprendeva l’angoscia di Annie, quando le aveva detto di avere paura a restare da sola in casa dopo la scomparsa di Thona, di essersi immaginata che in giardino potesse esserci un uomo che la spiava. Marian avvertì un senso di oppressione al petto. Era contenta di non abitare al piano terra.