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Era sabato, ma l’espressione giorno festivo non esisteva nel lavoro del poliziotto. Marian prese l’incarto di un cioccolatino, lo accartocciò e posizionò la pallina nella fessura della porta prima di richiudere. Se qualcuno fosse entrato, sarebbe caduta a terra.
Le bruciavano gli occhi per la stanchezza. Solo alle tre di notte era riuscita ad addormentarsi. Mentre usciva dal cancello, notò che qualcuno aveva appeso una giacca allo steccato. Probabilmente l’avevano trovata sul marciapiede e l’avevano messa in bella vista perché il proprietario potesse ritrovarla. Salì in macchina e si recò in questura.
Ai piani superiori, nelle stanze della Sezione Omicidi, era tutto un frullare di investigatori che correvano in ogni direzione. Sulla lavagna dell’ufficio di Cato Isaksen era appesa una foto di Andreas Lindeberg. E delle fotografie di Gustav Joner scattate sul luogo del ritrovamento. Il corpo nudo aveva delle lesioni considerevoli nella porzione inferiore del corpo. Marian osservò da vicino quelle immagini grottesche. Dopo tutti quegli anni, ancora non riusciva a restare impassibile davanti a un cadavere. Le capitava spesso di rivedersi davanti agli occhi quei corpi feriti, pugnalati, contusi e pieni di sangue. Erano spesso i dettagli più banali a restarle impressi nella memoria.
Giunse senza preavviso, Cato. Marian si voltò verso di lui. Era stressato e teso.
«Stavi aspettando me, Marian?»
«Sono solo passata a salutarti. Sto andando di nuovo al pensionato per cercare Glenn Haug».
«Allora trovalo. C’è bisogno di una svolta. Qui siamo in stato di emergenza, sai, per via del portiere di quel condominio. Avresti dovuto vedere… ma l’hai visto, ci sono le foto».
«Sì, ho visto le foto», rispose Marian.
«Va tutto bene? Sono un po’ preoccupato per te».
«Cato, da quando sei diventato mio padre?». Ripensò al biglietto e si chiese se fosse il caso di parlargliene.
«Non ci guadagna nessuno se ti prendi un esaurimento. Concediti un po’ di tempo libero. In fondo sei padrona delle tue giornate, no?»
«Non mi verrà un esaurimento. Non ho intenzione di prendermi del tempo libero adesso che ho appena ricominciato a lavorare. Come è stato ucciso Joner?».
Cato Isaksen ispirò profondamente. «Tra poco faremo un’altra riunione. È davvero una faccenda truce, porca miseria. Gli è scoppiato il retto. È stato usato un qualche genere di strumento che gli hanno conficcato così a fondo nell’ano da far esplodere le interiora. Chi accidenti può fare una cosa del genere? Il colpevole non è una persona qualsiasi, ma il modus operandi ci risulta del tutto nuovo. Il referto autoptico provvisorio dice chiaramente che si tratta di tortura a livelli estremi. Ha anche delle lesioni esterne piuttosto estese. La stampa per il momento non deve saperne nulla».
«E il ragazzo scomparso?». Marian scostò alcuni capelli dalla fronte.
«Visto che ti interessa tanto Andreas Lindeberg… ti dirò che è sospettato di aver molestato dei bambini all’asilo in cui lavorava». Cato andò alla scrivania e spostò dei fogli. «I genitori non lo sanno, perché quando è successo aveva più di diciotto anni. E abbiamo un caso simile a proposito di Joner», aggiunse.
Ma Marian già lo sapeva. «Dunque credi che ci sia un legame, Cato?»
«Impossibile dirlo. Lindeberg è ancora introvabile, neanche se lo fosse inghiottito la terra».
*
Stava mangiando seduto in un caffè, un buco schifoso giù nella vecchia Vika, e intanto ripensava a tutta quella storia. Aveva come la sensazione di essere in un film, un bel film dell’orrore d’altri tempi. Quella casa sembrava uscita da una scenografia.
“Niente è vero”, ripeté tra sé e sé, ma poi si accorse che, senza volere, lo aveva borbottato a voce alta e che la gente si era girata a guardarlo.
Quella notte era arrivato uno sconosciuto in macchina, era entrato deciso nel giardino della vecchia villa in legno intagliato e aveva aspettato sui gradini davanti al portone. Poi lui aveva visto la poliziotta scendere ad aprire, in vestaglia. Chi era quell’uomo che arrivava nel mezzo della notte? Poteva essere uno sbirro, uno sbirro travestito. O forse la poliziotta aveva un amante? Un uomo che si prendeva cura di lei? Era un’idea che non gli piaceva. La presenza di un partner premuroso non si conciliava con i suoi piani.
*
Una volta tornata nel seminterrato, Marian si sedette davanti al computer portatile. Gli uomini avevano l’inguine? Si poteva dire che Joner presentava gravi lesioni all’inguine, se le ferite erano localizzate nel retto e nell’intestino? No, gli uomini non avevano l’inguine. L’anatomia, dal greco temno, che significa tagliare, si occupa delle strutture visibili senza microscopio. Marian si scopriva spesso restia ad affrontare qualunque definizione che avesse a che fare con il sesso maschile. Era uno dei suoi più grossi problemi. Per liberarsi da quell’idea, iniziò a cercare su internet le formiche. Formiche carpentiere, formiche faraone, formiche nere, formiche bulldog, un genere comprendente circa novanta specie conosciute. Erano grosse. La regina arrivava anche a superare i quattro centimetri. Anche Marian era una regina, la “regina delle tenebre”. Così la chiamavano quando era bambina. Andava sempre a ficcare il naso nelle faccende altrui, era un piccolo diavoletto bugiardo che ingannava i genitori. Vi era costretta per sopravvivere. Forse era stata quell’abitudine di ficcanasare che l’aveva portata a scegliere il lavoro di poliziotta. Scrisse di nuovo la parola anatomia nel campo di ricerca di Google sull’iPad e comparvero subito le parole trasversale, prossimale e distale. Superiore e inferiore descrivevano le strutture del corpo in rapporto al piano orizzontale. La testa era superiore, mentre la coscia era inferiore rispetto all’inguine. Altre parole: superficiale e profondo, si definivano prendendo la superficie del corpo come punto di riferimento. Per esempio, la cassa toracica era superficiale rispetto al cuore, mentre lo stomaco era più profondo della parete addominale. Si imbatté nel termine “estremità inferiori”. Trascinò il cursore sul quadratino rosso in alto e chiuse la pagina. Fece una nuova ricerca sulle formiche. Quelle cazzo di formiche, immonde bestiacce brulicanti. Ora basta, doveva riprendere il controllo di sé. Perché entravano in casa sua ora che era autunno, quando l’unica stagione in cui le formiche si rifugiavano all’interno era la primavera? Aprì di nuovo il sito del «VG». L’articolo su Gustav Joner era stato aggiornato. Una telecamera di sorveglianza vicino al luogo del ritrovamento aveva inquadrato per un breve attimo una vettura scura che si allontanava lentamente.
*
C’era un odore dolciastro di terriccio e humus. Myrtel Haug era nella serra, puliva i vasi delle piante con movimenti maniacali, li sciacquava con il getto d’acqua di un tubo in gomma sottile e li riponeva su una panca di legno. Quando i fiori appassivano, i petali si trasformavano in una polvere impalpabile e gli steli diventavano viscosi e maleodoranti. Dato che era sabato, c’era un gran brulichio di gente negli orti. Era venuto anche Glenn. Era rabbrividita, quando aveva visto in che maniera orrenda si era deturpato la faccia. Era arrivato al culmine della follia. Già da bambino era diverso e lei non era riuscita a destreggiarsi bene nel proprio ruolo di madre. Capitava che gli prendessero degli attacchi di rabbia violenti o che diventasse intrattabile per delle sciocchezze. A volte doveva tenerlo fermo perché non facesse del male agli altri. Suo padre era sposato con un’altra. Si era vista con lui solo qualche volta, era un tipo troppo raffinato per lei. E lo pensava anche lui. Da quel suo figliolo non c’era da ricavare granché. Lo aveva sempre rimproverato per tutto. Myrtel deglutì. Una pesante mosca autunnale sbatté contro il vetro. Fuori, Oda portava via con una carriola i rami tagliati e andava a svuotarli accanto al recinto di Uelands gate, dove li avrebbero bruciati. Era piacevole stare con Oda. Non diceva una parola, lavorava e basta.
«Sono solo tre gradi», le fece notare Myrtel quando tornò indietro. Oda annuì con il capo e raccolse dei rami che le erano caduti dalla carriola.
Quando Myrtel tornò ai vasi delle piante, scorse la poliziotta attraverso la superficie in vetro della serra e chiuse l’acqua. Si ritirò e uscì da una porta sul lato opposto. Dalla piccionaia si sentiva tubare. Myrtel si avvicinò e tolse la rete.
«Volate via!», esclamò.
*
Tønnesen le telefonò proprio mentre passava davanti alla piccionaia. Era tornato. Era stato via sei giorni, ma sembravano di più. Marian avvertì il battito delle ali dei piccioni sopra la testa. Strano a dirsi, ma sentire la voce di Tønnesen le diede un senso di sicurezza. Dovette abbassarsi e chinarsi di lato per scansare quei pennuti grigi che erano senza dubbio portatori di pidocchi.
«Sono riuscito a concludere tutto quello che dovevo fare. John Johansen sembra un uomo perbene», raccontò Tønnesen, «se così posso esprimermi. A volte semplicemente le persone non sono fatte per stare insieme. Niente è solo bianco o nero, Marian».
Marian sentì che era raffreddato. «Quando passi in ufficio?»
«Mi prendo due giorni liberi domani e lunedì. Sto risentendo del jet lag. Farò un salto martedì».
Marian sentì una pesantezza alla fronte. Si era dimenticata di mangiare e adesso le stava venendo mal di testa. Si sedette su una panchina.
«Dunque John Johansen ti è piaciuto?»
«Sì. I campioni di DNA sono in mano alla Scientifica», continuò. «Ma mi hanno informato che ci vorrà del tempo. Sono a corto di personale e al nostro cold case non viene certo data la priorità. Non sembra anche a te?»
«Sì. Ma gliela faremo vedere noi».
Oda le passò davanti con la carriola vuota. Incrociando il suo sguardo, a Marian venne da pensare all’occhio, quello nel foro dell’armadio. Non che avesse niente a che vedere con Oda, ma l’espressione negli occhi di quella donna aveva un che di particolare. Le ricordava una capra che aveva visto allo zoo da piccola, rimasta avvolta nel filo spinato. Il dolore del filo metallico che le strappava la zampa le aveva fatto spuntare la stessa espressione da pazza negli occhi color dell’acqua. Oda aveva tutte le rotelle al posto giusto?
«Le figlie erano grosse e sovrappeso», proseguì Tønnesen. «Ma lo avrai già visto dalla foto che ti ho inviato. Poi scopriremo se Johansen è il padre di Thona. Volevo solo dirti che John Johansen conferma quello che ti ha detto sua madre alla casa di riposo di Frogner. Annie è, e lo era anche allora, intelligente, brava e bella. E falsa, ha aggiunto lui. Tu dove sei adesso?».
Marian si morse il labbro inferiore. «Sono negli orti», rispose.
«Perché? C’è qualcosa di nuovo?»
«No, sto solo cercando Glenn Haug». Sentì gli uccelli che tubavano tra gli alberi, girò e tornò indietro. Era evidente che quei piccioni si agitavano quando sentivano la sua voce. Ne avvertiva il puzzo. Forte e leggermente acre, come quello di una pelliccia bagnata.