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È notte. Sono le tre passate da cinque minuti. Fuori dalla casa dalle travi in legno intagliato il giardino è buio e silenzioso. Lui sta attento a non far sbattere la porta e l’accompagna chiudendola senza far rumore dopo essere entrato. Le case addormentate hanno un’aria solitaria, eterna come l’acqua del mare.
Sale silenzioso le scale, con l’odore intenso del legno che gli penetra le narici. Conosce quel posto come le proprie tasche.
A quell’ora la maggior parte della gente è già nella quarta o quinta fase del sonno. I muscoli paralizzati, il respiro regolare, il cervello che ha staccato la spina. Lui queste cose le sa.
Entra in casa di lei e resta per un istante in ascolto nell’ingresso prima di richiudersi la porta alle spalle. Vede la propria figura riflessa, perché la porta del bagno è socchiusa e dentro la luce è accesa e crea un fascio che dalla porta penetra fin dentro lo specchio. Come una colonna. Il silenzio è tale da permettergli di udire i battiti del proprio cuore.
Lei dorme su un fianco, in posizione fetale, con la guancia segnata dalla cicatrice poggiata sul cuscino. Il boxer alza la testa e lo guarda, ma è come se non lo vedesse. Lui lo fissa. Non si può certo dire un cane da guardia, quello.
*
Lei percepisce un senso d’ansia nel sonno. È come cadere nel vuoto, ma non riesce a muoversi. Avverte un respiro sull’orecchio, un venticello caldo, ma poi torna a scivolare e a sparire nell’oscurità accogliente.
Lui fa un passo indietro e raddrizza la schiena. Il respiro di lei puzza di alcol e sul comodino c’è una bottiglia mezza piena. È decrepito, quel cane a pelo raso; si gira e torna a posare il muso sulle zampe. Lui ha il coltello in mano, pronto, nel caso in cui lei dovesse svegliarsi. Ma resta lì per un po’ e lei dorme. Le persone addormentate non hanno coscienza di sé e della propria identità. La spalla e il collo, con la pelle sottile, risplendono bianchi verso di lui. Solleva il coltello, soffermandosi a pochissimo da lei. Se adesso si muovesse, sfiorerebbe il metallo della lama e allora lui non avrebbe altra scelta se non affondare.
Ode il rumore di una macchina fuori, nella strada, e in automatico si allontana di un passo dal letto. Pregusta il momento in cui si troveranno faccia a faccia, ma avverte il bisogno di rinviare, di prolungare il piacere di perseguitarla. Solo per un altro un po’. Lei ha paura del fuoco. Lui non ha mai provato prima quella precisa sensazione, benché abbia i propri demoni con cui convivere. Nessuno può vedere da fuori chi sono davvero gli altri. Lui è un esperto delle strategie di fuga messe in atto dalle persone. Tutto gira intorno a quel sentimento maniacale al margine della coscienza, un’ansia brontolante che termina nella morte.
Si accorge che la porta dell’armadio è aperta, perciò la riaccosta silenzioso. Poi scende la scala metallica strisciando all’indietro, prende un mucchio di carte dal tavolo da pranzo, infila tutto nella grossa stufa nera e accende il fuoco, lasciando lo sportello aperto.
*
Marian si svegliò con la sensazione di qualcosa che non quadrava. Gli occhi erano come due strette fessure doloranti e c’era un odore di bruciato nell’aria. Fumo? Si tirò su a sedere appoggiandosi perplessa sui gomiti e guardandosi intorno. Poi si gettò fuori dal letto e si infilò la vestaglia. Erano le sei e mezza. L’anta dell’armadio si era aperta, ma vide che il pannello posteriore era rimasto inchiodato al proprio posto e che il foro era ancora sigillato dal nastro nero. Sapeva bene che i sensi stavano giocando una partita a ping-pong con lei e che aveva bevuto troppo. Per l’ennesima volta.
Quando giunse dabbasso sentì che faceva un caldo anomalo e freddo al contempo, come se qualcuno avesse appena acceso il fuoco. Lo sportello della stufa era spalancato. Toccò la stufa panciuta e sentì che era calda. La finestra vicino al bancone della cucina era socchiusa. Ma lei non l’aveva mica aperta? La richiuse. Non aveva acceso la stufa la sera precedente prima di coricarsi. O forse sì?
Non c’era alcun segno di effrazione. La porta era chiusa a chiave. Nessuno si era introdotto in casa.
Il panico le si bloccò in gola quando aprì il mobile della cucina per prendere una tazza e subito si accorse che c’era qualcosa di storto: di solito teneva i bicchieri a destra e le tazze a sinistra; ora invece le tazze erano a destra. Richiuse di botto lo sportello, si voltò e appoggiò la schiena al bancone. Si sentì raggelare la colonna vertebrale da cima a fondo. Fu in quel momento che si accorse che il mucchio di carte era sparito, quello sul tavolo da pranzo. E anche il foglietto di Annie. Li aveva forse bruciati? Aveva bruciato il foglietto di Annie? Aprì lo sportello della stufa e scrutò la cenere. Quel mix di pasticche e gin… Le dispiaceva che il biglietto di Annie non ci fosse più. E che anche i documenti fossero distrutti. Quelli, però, erano solo copie. Dovette ammettere che era la sua testa ad avere qualcosa che non andava. Si vestì svelta e afferrò le chiavi della macchina. Sul tavolinetto sotto lo specchio c’era la pallina di stagnola. Fece uscire il cane, sistemò la pallina nello stipite della porta e richiuse.
L’artista non venne ad aprire, neanche quando gli bussò alla porta. Aveva deciso di allentare ogni freno inibitorio e di lasciare che la abbracciasse, ma lui non era in casa.
Fuori faceva più caldo di quel che si poteva supporre. Un uomo attraversò un po’ più oltre lungo la strada, vicino al punto in cui Marian aveva parcheggiato. Entrò veloce nel vialetto di una casa e sparì. Il marciapiede era sporco di polvere e foglie secche. Marian proseguì per la propria strada, fino a Solli plass, dove entrò da ConSenzo, scovò un posticino solitario in fondo al locale, ordinò del cibo e un calice di vino bianco. Avrebbe dovuto far installare un allarme. Pensò all’ipnotizzatore e alla farfalla di cui le aveva raccontato Elly. E all’arma.