9

Era il primo settembre. La vedova Thyra Vinding udì i passi della donna asiatica sulle scale. E lo zampettare del cane, le unghie sulla vernice dei gradini. Dove andavano di mattina presto in quel modo? Si avvicinò alla porta d’ingresso e accostò l’orecchio. Le grosse tende di tulle che coprivano il vetro della porta formavano una barriera troppo impenetrabile per permetterle di vedere qualcosa e perciò si spostò rapida in cucina. Lì, da uno dei tre riquadri della finestra, sbirciò lungo la strada seminascosta dai maestosi alberi. Le rose rampicanti sul muro dietro allo stendi panni erano appassite. Si posizionò a una distanza ragionevole, al riparo dei pannelli smerigliati che ricoprivano la finestra dietro alle piante in vaso.

La nuova vicina rimase un attimo fuori, sullo spiazzo ovale di ghiaia, lasciando che il cane facesse i suoi bisogni. Finalmente Thyra Vinding riusciva a vedere con chiarezza le ustioni che aveva sul viso. Sotto il braccio reggeva qualcosa di simile a una fotocopiatrice. Raccolse gli escrementi del cane e si avviò verso il cancello. A quanto pare stava andando da qualche parte.

La nuova vicina viveva lì ormai da quattro mesi, ma non era mai andata a presentarsi. Era maleducata, certa gente. Era ormai da tempo che la vedova aveva apparecchiato il tavolino da caffè in salotto. L’uomo che faceva quelle sculture, invece, aveva parlato un po’ con lei sulle scale, ma neanche a lui interessava sapere chi era e come si chiamava.

Thyra Vinding si trasferì rapida alla finestra del salotto. I suoi mobili sembravano oggetti da museo. Si alzava dal divano verde felpato per fare la sua casuale comparsa quando vedeva qualche movimento o sentiva un rumore nell’atrio; gli altri divani li aveva coperti con lenzuola o copripiumini, come cavalli in inverno. Doveva aver cura del mobilio di famiglia.

La donna con la giacca in pelle e il cane uscì dal cancelletto arrugginito dello steccato. La vedova aguzzò lo sguardo dietro alle trine che orlavano la tenda. La donna stava camminando fuori dalla palizzata, verso il suo furgoncino bianco. Ma dove stava andando?

Poi, guardandosi nel vetro della pendola, Thyra Vinding vide il proprio viso stretto e pallido e gli archi innaturali delle sopracciglia delineati da una linea marcata, che disegnava ogni mattina con una matita nera.

Aveva sacrificato un alto vaso in vetro blu cobalto, collocandolo sul pianerottolo sei scalini più su, come ornamento per la nuova arrivata. Forse però avrebbe dovuto riprenderselo, visto che la donna non aveva mostrato di apprezzare il gesto.

Quando la macchina se ne fu andata, tornò nella grande cucina. Sia le pareti che i mobili erano tinteggiati di un verde chiaro e sulla parete accanto alla porta era affisso il portachiavi con i ganci, da cui pendevano tre chiavi: una era quella di casa sua, la seconda era della cantina e la terza dell’appartamento della torre. L’aveva avuta dagli inquilini che ci vivevano prima che vi si trasferisse la donna con il cane.

*

La sede centrale del distretto di polizia di Oslo era situata in cima a un’altura nella zona orientale della città, vicino alla chiesa di Grønland e a vari palazzi scalcinati. Era una costruzione in vetro e acciaio, non molto distante dal carcere distrettuale. Marian rallentò quando vide l’edificio. Aveva il tesserino appeso al collo ed era molto nervosa. L’autunno aveva avvolto un sottile filo argenteo intorno agli alberi del vialetto d’entrata, che tatuavano la facciata proiettandovi le loro ombre. L’erba che contornava l’edificio aveva un acceso colore autunnale, come se volesse brillare più intensamente prima di marcire sotto il gelo dell’inverno. Marian svoltò verso la rampa che conduceva al parcheggio sotterraneo e in ascensore incontrò una donna con cui aveva già lavorato in precedenza. La donna passò il tesserino nel lettore e insieme salirono alla Sezione Omicidi del quarto piano.

Mentre usciva dall’ascensore, con la coda dell’occhio scorse un uomo che entrava nella cabina accanto. Era forse Karsten Tønnesen?

Dalla sezione le giunse il brusio delle persone che lavoravano nei vari uffici. Aveva adorato far parte di quel mondo. Le piaceva condurre gli interrogatori, ascoltare le menzogne, quel loro suono particolare che lei sapeva sempre riconoscere. Il dolore si irraggiava dalla cicatrice fino a tutto l’orecchio. Era riuscita a resistere alla tentazione sia del gin sia delle pasticche quel giorno, ma ora ne pagava le conseguenze.

Cato le diede una veloce stretta di mano, come se fossero due estranei, e le porse una sedia. In fondo avevano parlato al telefono solo il giorno prima, ma adesso le sembrava di essere appena tornata da un lungo giro intorno al mondo. In realtà non lo vedeva da febbraio, quando era andato a restituirle il cane.

«Tønnesen è appena stato qui. È pronto», disse Cato. «Dammi il tuo tesserino, qui ce n’è uno nuovo per te».

«Menomale!», rispose lei, contenta che Cato non avesse accennato all’incidente nella fornace. Era un caso risolto e archiviato.

Si accorse che era deperito negli ultimi mesi: i capelli grigi si erano fatti più radi e il volto più marcato. Aveva cinquantotto anni e presto sarebbe dovuto andare in pensione, ma restava aggrappato con tutte le proprie forze al posto di investigatore capo della Omicidi. Senza il suo lavoro non sarebbe stato nessuno. Così come in quel momento lei non era nessuno. Per questo era lì. Per fortuna Cato non fece osservazioni neppure sulle ustioni sul suo viso, che in fin dei conti aveva già visto. Prese una cartellina piuttosto corposa dalla scrivania.

«È da tempo che ci prepariamo a riaprire questo caso. Sono stato un paio di volte all’ospedale di Lovisenberg per parlare con Annie Ormberg Johansen, la madre della bambina scomparsa. Lavora ancora nello stesso posto, ma in un altro reparto, in un edificio diverso. Ho l’impressione che pensi che la riteniamo responsabile dell’accaduto, perché sembra sempre un po’ sulle sue e molto tesa».

Marian lo interruppe. «Non staremo mica facendo un lavoro gratuito per la previdenza sociale, eh, Cato?».

Lui la guardò. «Si tratta di un progetto. Per tua informazione, in collaborazione con il NAV».

«L’istituto di previdenza per i lavoratori», gli fece eco sarcastica. C’erano sempre state delle scaramucce per decidere chi dovesse comandare tra lei e Cato. Erano un po’ troppo simili e si piacevano più di quanto non volessero ammettere.

«Potrebbe esserci qualche dettaglio che non abbiamo notato. Sai come vanno queste cose a volte, visti i ritmi con cui lavoriamo. Mi sono occupato io del caso Thona all’epoca e lo archiviammo piuttosto alla svelta, perché la bambina sembrava come sprofondata nella terra. Quegli orti sono molto grandi, ma all’epoca concludemmo che qualcuno doveva averla portata via. Avevamo messo gli occhi su Myrtel Haug e su suo figlio, ma non trovammo nessuna prova schiacciante. Lui è il padre della bambina con cui giocava Thona. Interrogammo tutti i proprietari degli orti, controllammo le registrazioni delle telecamere di tutte le stazioni di benzina della zona e tutti i sistemi di pedaggio stradale. Cercammo tra i possibili sospetti che avevano un permesso di libera uscita dalla prigione, tentando di collegarli al rapimento, ma con esito negativo. Non è comunque detto che non siano colpevoli. È un dettaglio su cui dovrete fare verifiche più approfondite».

Un lieve dolore si diffuse dalla fronte verso la nuca.

«Ti senti male?».

Marian sollevò appena lo sguardo e allontanò un ciuffo di capelli dalla fronte. «No. A chi dovremo fare rapporto, a te o alla Kripos?».

Lui la guardò. «Ti verrà dato il nome di uno della Kripos. Esistono reperti dell’epoca, abbiamo il profilo del DNA di entrambe le bambine su una palla. E ora c’è un nuovo metodo di analisi».

«Non sono via da così tanto, Cato». Marian sollevò la testa e scivolò leggermente sulla sedia, cercando di sorridere.

«È un metodo nuovissimo, Marian, molto più sensibile e preciso, chiamato Low Copy Number. Però non abbiamo mai trovato traccia del DNA del colpevole. Non potevamo certo metterci a quattro zampe a perlustrare ogni filo d’erba. Quel giardino pullulava di gente, sia prima sia dopo. Solo nel momento in cui la bambina è scomparsa non c’era nessuno».

Marian fece un respiro. «Dove sarà il mio ufficio?»

«Ti verrà assegnata una stanza di sotto, al livello K1, dietro al guardaroba del seminterrato», le spiegò Cato. «Ho già preparato dei documenti per te. Eccoti la chiave».

«Solo io e Tønnesen, allora?».

Cato annuì. «La Kripos vuole unità piccole, per ragioni di budget, ma ovviamente, se scoprirete qualche pista interessante, aggiungeranno altro personale». La conosceva così bene da anticipare la sua prossima osservazione: «Credo che Tønnesen preferisca lavorare da casa, ma cercate di incontrarvi il prima possibile. Si metterà in contatto con te, così potrete decidere come procedere. A proposito, Birka è ancora viva?».

Marian prese la chiave. «È viva, ma è malata di vecchiaia, sempre che la vecchiaia si possa definire una malattia». Fece un lieve sorriso. «Risolvere questo caso sarà come cercare un ago in un pagliaio da quel che mi sembra di capire».

«All’epoca arrestammo Glenn Haug, ma considerando il caso con il senno di poi, direi che abbiamo agito con i paraocchi. Era un tossicomane e aveva commesso piccoli reati. È ancora a piede libero, ho scoperto che alloggia in un pensionato vicino al centro commerciale Oslo City. Deve essere ridotto all’osso, dopo tutti questi anni. Me lo ricordo bene, con quegli occhi sporgenti e quell’aria impassibile. In seguito ha tentato di chiedere un risarcimento, ma non gliel’hanno concesso».

Il caso della bambina scomparsa
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