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Cato Isaksen le telefonò subito, nonostante fosse quasi mezzanotte. Era contento della sua risposta e Marian ne fu commossa. Seduta contro la testiera del letto, con la schiena appoggiata a due cuscini, lo lasciò parlare. Le piaceva sentire di nuovo la sua voce e stava quasi per dirgli che ne aveva sentito la mancanza. Con lo sguardo fissava una decorazione del vecchio comò marrone.

«Sono contento che tu abbia accettato, Marian. La Kripos ha creato un gruppo per i cold case composto da piccole unità, assegnando una coppia di investigatori a ogni vecchio caso irrisolto. Ci sono trentadue omicidi ancora in attesa di essere chiariti, ma credo che tu sappia che il caso di Kristin del 2000 è stato chiuso e che in quello di Tina di Stavanger ci sono stati nuovi risvolti. I titoli dei media stimolano possibili testimoni a farsi avanti. Al momento la Kripos ha una lista di trenta casi. Quello di Thona, come ho già detto, è tuo. E di Karsten Tønnesen».

«Karsten Tønnesen?», ripeté Marian. Per quel che ne sapeva, quell’ilare psichiatra era in pensione da qualche anno. Sarebbero stati proprio una bella coppia!

«Credo che voi due formerete una squadra perfetta, vi completerete a vicenda», proseguì Cato e poi le fornì qualche informazione più approfondita sul caso.

All’improvviso negli occhi di Marian spuntarono le lacrime. Cato provava pietà per lei, lo sentiva dalla voce. Era stato al suo capezzale all’ospedale di Ullevål, mentre lei era in coma indotto nel reparto di terapia intensiva. In seguito le avevano detto che andava a farle visita un giorno sì e uno no. Quando si era svegliata, gli aveva chiesto di non andare più a trovarla, perché non sopportava di vedere nessuno, ma lui si era comunque occupato di Birka.

Si girò su se stessa per portare i piedi a terra e, con il cellulare schiacciato tra l’orecchio e la spalla, andò verso il comò e aprì il primo cassetto in alto. Forse il tesserino poteva essere lì?

«Immagino tu abbia seguito il caso di Thona sui media nel corso degli anni, era dappertutto. Forse ricorderai l’amministratrice dei giardini, quella che era stata soprannominata “la signora dei piccioni”. Suo figlio, Glenn Haug, è stato a lungo sospettato, ma all’epoca non riuscirono a incastrarlo».

Dal cassetto salì un odore di lavanda e di chiuso. C’era una gran confusione lì dentro. Era un punto a favore di Tønnesen il fatto che fosse vecchio, perché spesso gli anziani sono lenti. Marian cercò in mezzo alle carte sparse nel cassetto.

«Sarà una bella avventura, Cato», disse tirando fuori un album. «Spero solo di farcela. Come sai…».

«Certo che ce la farai, eri la migliore…».

Marian sentì il cuore martellarle nel petto.

«Una delle migliori», aggiunse Cato e dalla sua voce Marian capì che stava sorridendo.

Era brava, ma non nel lavoro di squadra. Poco prima dell’incidente aveva dovuto sottoporsi a un test psicoattitudinale chiamato Big Five. Del risultato non c’era certo da andarne tanto fieri: aveva ottenuto un punteggio elevato in dinamismo, ma anche in abilità di manipolazione, e scarso in capacità di collaborare.

Sotto un paio di fotografie trovò la cordicella del tesserino e lo tirò fuori.

*

In quello stesso momento la vettura con Andreas Lindeberg risaliva una valle nel buio. Lungo la strada c’erano campi scuri e foreste di conifere, e anche qualche fattoria, ma alla fine non si videro più case, solo l’oscurità, finché il furgone non svoltò a destra, inoltrandosi su una strada di ghiaia. I sassolini scricchiolavano sotto le ruote. Tutto era buio, nero a perdita d’occhio. Andreas si appoggiò tremante su un gomito e vide una foresta scura e un fienile senza tetto, con le travi nude protese verso il cielo. Poco oltre il furgone si arrestò e nel fascio di luce dei fari spuntò una cassetta delle lettere. Fu allora che l’uomo spense la musica. Andreas vide un edificio in muratura su due piani con il tetto piatto, una casa simile a una fabbrica, dall’aria molto fatiscente. Una scala piena di crepe saliva fino alla porta d’ingresso. La costruzione sulla destra era un garage con un portone la cui lamiera ondulata risplendeva sotto la forte luce della lampada mezzo rotta appesa al muro. Quel posto sembrava disabitato, con le tende tirate, ma di fianco alla porta una fievole luce filtrava dalla stoffa lungo lo stipite della finestra. In quel momento il portone del garage fu sollevato con un rumore metallico e tra le mura interne risuonarono i latrati di un cane. Un grosso cane.

L’uomo entrò all’interno con il furgone, scese e la portiera venne richiusa con un colpo. Dentro, la luce era di un bianco sporco. La motocicletta venne parcheggiata a fianco di un’altra identica. Andreas, totalmente inesperto di motori, non avrebbe saputo dire di che modello si trattasse. Quando lo sportello posteriore del furgone venne aperto, avvertì uno spostamento d’aria. Eccolo lì, il cane, un pastore tedesco dalla testa enorme e dalle zanne gialle e affilate. Posò le zampe nel furgone, portò il muso all’indietro e abbaiò, inondandogli la faccia di un alito putrido. Quei latrati gli giunsero come uno schiaffo, con una forza che sembrava quasi fracassare i timpani. L’uomo senza casco allontanò il cane strattonando il guinzaglio. Intanto il portone del garage si stava riabbassando con una serie di bip intermittenti. Andreas fu trascinato fuori dalla vettura dall’altro uomo, che aveva la visiera del casco ancora abbassata. L’intero locale era in mattoni grezzi; il pavimento aveva delle crepe qua e là ed era macchiato di chiazze d’olio e sporco. Il cane venne legato a una catena abbastanza corta da non farlo uscire. In un angolo c’era un tornio, sopra il quale pendevano file di coltelli appesi al muro: doveva essere una specie di officina, quella. Accanto al tornio c’erano un compressore e una vecchia cassa di legno con varie chiavi inglesi gigantesche e grossi attrezzi antiquati.

A sinistra c’era un gabbiotto in vetro da cui si vedeva l’interno della casa. Lo sportello, anch’esso in vetro, era chiuso. Era come quelli dei vecchi uffici postali, con un foro rotondo al centro, prova del fatto che in passato dovevano esserci stati dei clienti in quel posto. All’interno sedeva una donna anziana che lo fissava. Accanto, una porta conduceva all’interno della casa. C’era un odore forte di olio motore usato, fumi di scarico e benzina, esalazioni che si mischiavano le une con le altre. Nella realtà era impossibile avvolgere il nastro e tornare indietro, ma in quel posto tutto era antiquato, tanto da dare la sensazione di ritrovarsi in un film d’altri tempi.

*

Marian aveva paura di non farcela. La piccola Thona Ormberg Johansen. Mio Dio, le sembrava quasi impossibile che quel caso fosse suo. C’era qualcosa di particolare nel lavorare con la morte, ma quello di Thona non era un caso di omicidio, perché non c’era un cadavere.

Quando a suo tempo aveva cominciato ad andare a scuola, Marian non aveva capito che la cosa più pericolosa che potesse fare era cercare di piacere agli altri. Gli altri bambini la chiamavano “cinesina” per via degli occhi a mandorla. Già allora aveva deciso che sarebbe diventata una poliziotta. Si era sempre trovata costretta a confrontarsi con gli aspetti peggiori dell’esistenza. Quando non era a scuola, di notte, veniva sempre svegliata dalle liti tra i suoi genitori nel piccolo appartamento del condominio in cui vivevano. Crescendo, la certezza del pericolo si era radicata dentro di lei. Vedeva tutto e decifrava ogni genere di falsità.

Insieme, lei e Cato avevano risolto molti casi nel corso degli anni. Lei era più brava, non dal punto di vista tecnico, ma da quello tattico. Era in grado di percepire ogni singolo dettaglio delle atmosfere e delle situazioni. Una volta Cato l’aveva accusata di voler rafforzare la propria posizione. E aveva ragione, per la miseria, però non capiva che lei lo faceva per sopravvivere: doveva essere la migliore e questo le richiedeva uno sforzo incredibile. Molti si sentivano traditi da questo suo atteggiamento, ma forse era inevitabile quando si aveva successo. Be successful, it drives people crazy, “Ottieni il successo e manderai la gente in bestia”, era il motto sul bigliettino da visita che aveva preparato per le feste a ridosso della maturità.

Il caso della bambina scomparsa
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