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Andreas era riuscito a spalancare la porta dandole un calcio con il calcagno. Uno dei cardini era staccato dal legno. Gli sanguinava la pianta del piede e la gamba e la coscia gli dolevano. Si tirò su a sedere e tese l’orecchio verso il piano di sotto, ma non arrivava nessuno. Allora si avviò carponi lungo il tappeto verde, con in mano il grosso frammento del vaso rotto. Indosso aveva i pantaloni di una tuta e una maglietta azzurra troppo grande per lui. Aveva perso molto sangue e gli girava la testa, ma riuscì comunque a sollevarsi in piedi sostenendosi alla parete su cui erano appese tutte le fotografie. Dai fianchi il dolore risaliva verso l’alto, lungo la colonna vertebrale. La finestrella in fondo al corridoio non si apriva. Fuori era il crepuscolo, un’ultima striscia di sole si stendeva sopra le scure cime degli abeti laggiù nella foresta. Dunque era sera. Non aveva idea di dove si trovasse la casa, ma avevano svoltato in direzione di Lillestrøm. Un rumore sordo che proveniva dal piano di sotto lo fece trasalire. Forse il cane non era legato? Raggiunse lentamente le scale, si aggrappò alla ringhiera e provò a posare cautamente un piede sul primo scalino. Lo scalino scricchiolò. I battiti del cuore aumentarono. Il cane doveva essere dentro l’officina. Andreas si fermò ad ascoltare, ma non succedeva niente. Dal piano di sotto saliva un intenso tanfo di muffa e chiuso. Sentivano che stava arrivando? Spostando le mani a tentoni lungo il corrimano, scese un gradino alla volta. Le strisce di sangue si erano rapprese all’interno coscia. La sorella, c’era lei di sotto adesso? La vecchia doveva essere a letto. Forse gli uomini lo stavano aspettando? Con movimenti impacciati, riuscì a scendere le scale, avvinghiato alla ringhiera. Perché non lo avevano semplicemente ammazzato? Capiva bene che non potevano lasciarlo scappare. Per prima cosa, sarebbe subito corso dalla polizia e loro lo sapevano. Aveva già avuto a che fare con la polizia. Ci fu uno scricchiolio quando posò il piede sul settimo gradino. Si fermò e ascoltò i battiti del proprio cuore. Gli colò il sudore sulla nuca, poi si sentì gelare.
*
L’artista la fermò sulle scale dopo che era stata fuori in giardino a sguinzagliare Birka. L’ingresso era semibuio, l’unica luce era quella che entrava dai vetri a mosaico delle finestrelle sopra la porta. Fino ad allora Marian non si era mai ritrovata davvero a tu per tu con lui. Adesso però, dopo aver vissuto lì per quattro mesi, era troppo tardi per presentarsi con una stretta di mano.
«Allora lavori nella polizia», le disse. «Giornate lunghe?». Sorrise e con una mano si arruffò i capelli biondi scarmigliati.
«Come lo sai?», chiese Marian di rimando, fissandogli la barba corta.
«Dal tesserino che porti intorno al collo».
Con un gesto automatico, Marian chiuse la giacca di pelle.
«Le scale vanno lavate a turno?», domandò guardando gli scalini dalla vernice lucida. «Ho visto un cartello di sotto».
«Stavo pensando di cercare una nuova donna delle pulizie. Secondo la signora del piano di sotto possiamo pulire da soli». Sorrise un’altra volta. «Fai la multa a quelli che guidano troppo forte?»
«No, non faccio multe a nessuno», replicò Marian. L’artista aveva una motocicletta parcheggiata su una striscia d’erba appena dentro al cancello, ma non la usava quasi mai. Stava per chiedergli come si chiamasse, perché non c’era nessun nome sulla cassetta delle lettere, ma poi si accorse che le stava fissando la cicatrice. «Vieni, su Birka, andiamo», disse.
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Dopo il dodicesimo scalino, era ormai dabbasso. Udiva il ticchettio dell’orologio a muro. Se la sorella fosse stata in casa, a quel punto lo avrebbe fermato. La piccola cucina adesso appariva se possibile ancora più stretta. Sotto i pensili, era accesa una piccola lampada che illuminava il ripiano, su cui si trovava la bomboletta di gas spray, con sopra disegnato un teschio e due ossa incrociate. Andreas la prese e posò la scheggia del vaso sulla cucina. Fu allora che udì un rumore: un movimento, il crepitio di un piumino. Il rumore proveniva dalla stanza di vetro, era la vecchia. Là dentro teneva accesa una radio a basso volume, che mandava musica d’altri tempi. Era sintonizzata su P1+, un canale che piaceva anche a sua madre, benché avesse solo quarantatré anni. Sentì salire di nuovo le lacrime. Vedeva un pezzo del letto, la parte inferiore e la sponda. Il piumino era per metà sul pavimento. Andreas fece un passo in avanti.
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Questa volta si ricordò di chiudere la porta a chiave. Forse era stata solo la sua immaginazione, ma mentre sedeva in salotto, aveva sentito qualcuno afferrare la maniglia per cercare di entrare. Era corsa nell’ingresso e aveva spalancato la porta, ma non c’era nessuno. Un posto che aveva dimenticato di controllare era la scala che conduceva in soffitta. Spariva dietro una parete ed era dunque un luogo perfetto per nascondersi. Marian mescolò il gin con del succo d’arancia, dicendo a se stessa che aveva bisogno di vitamine. Era una mistura corrosiva per lo stomaco, ma aveva mangiato zuppa, uova strapazzate, formaggio e pane abbrustolito. Ogni tanto doveva prendere il Nexium per contrastare l’acidità. Quella sera, per sicurezza, prese anche un Vicodin. Accese la TV e, per la prima volta dopo tanti mesi, avvertì un senso di pace, come se avesse scacciato dalla propria mente l’incidente, fosse riuscita a superarlo e ad accettare la situazione. Ora, per potersene stare veramente in pace, non doveva fare altro che sterminare quelle formiche infernali. Peccato che prima si fosse dimenticata di chiedere all’artista se avesse anche lui le formiche in casa. Annie Ormberg Johansen aveva lavorato sulle malattie contagiose all’Istituto di Salute pubblica, forse era anche esperta di animali infestanti?
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L’anziana si protese fuori dal letto e Andreas si ritrovò davanti i suoi occhi senza ciglia, uno sguardo grigio e acquoso. Poi la donna si voltò con noncuranza, succhiandosi le gengive. Sul comodino c’erano un pacchetto di sigarette e dei fiammiferi e Andreas li prese, senza neppure guardare la vecchia. Dal vetro si vedeva l’officina. C’era il furgone, e anche il cane, legato alla catena arrugginita. Ma non c’erano le motociclette. Dov’era la sorella? Andreas aguzzò gli orecchi; doveva agire alla svelta, ma era davvero lento. Nell’atrio c’era un piccolo bagno. Se avessero avuto la linea fissa, il telefono sarebbe stato sul comò dell’ingresso.
La porta del bagno era aperta. Dentro, l’aria era densa di vapore, come se qualcuno avesse appena fatto la doccia. Andreas si accese una sigaretta, con mano tremante. L’aria veniva risucchiata da una piccola ventola. Si guardò nello specchio, coperto di macchioline grigie di dentifricio che andarono a tempestargli il viso. Spense la sigaretta nel lavello e poi dovette aggrapparvisi saldamente prima di poter tornare in salotto, perché ebbe un giramento di testa. I battiti del cuore sembravano i colpi del guantone di un pugile sul petto. Fu allora che scorse i propri vestiti, ammucchiati sul divano. Jeans, maglia e giacca. C’erano persino le scarpe, che scintillavano, bellamente disposte sotto il tavolo del salotto. Andreas si tolse quegli orribili pantaloni della tuta e la maglietta, e indossò i propri vestiti più svelto che poté. Cercò di resistere al dolore, mentre si chinava per allacciare le scarpe. D’un tratto si rese conto di quale disgustoso odore emanasse, come se il corpo fosse in procinto di decomporsi. Poi udì il cane abbaiare. La catena sferragliò. Andreas si rivide davanti le zanne gialle. Doveva uscire di lì in fretta, per quanto glielo consentiva il corpo dilaniato. Si rese conto che quella era la sua unica chance.
*
Portò con sé il bicchiere e si sedette al tavolo da pranzo, inserì il codice nell’iPad e fece una ricerca sulle formiche. Le formiche bulldog si nutrivano di nettare e funghi. Sullo schermo della televisione alle sue spalle stava passando la notizia del diciottenne scomparso. Marian si voltò e lanciò uno sguardo alla foto da Peter Pan del ragazzo. Intervistarono i genitori. Marian studiò la loro immagine sullo schermo. Erano un bell’uomo e una bella donna, di fronte a un’elegante villetta monofamiliare di Vinderen. Dopo poco, però, un’altra notizia prese il loro posto. Diverse migliaia di profughi erano di nuovo sbarcati sulle isole della Grecia. Alle frontiere, si innalzavano barriere in numero sempre crescente, per impedire che arrivassero al nord a frotte. Marian si volse di nuovo verso l’iPad. Ormai le formiche erano diventate un chiodo fisso. Anche le regine andavano a caccia, non solo le operaie e non solo i maschi. “Le regine nutrono le nidiate di larve con il proprio grasso corporeo. Dopo che si sono strappate le ali, i muscoli che le reggevano diventano superflui”. Gli occhi di Marian correvano lungo la pagina. “Alcune specie sono diurne, altre invece sono attive giorno e notte. Il metodo di caccia prediletto dalla maggioranza delle formiche è l’attacco di massa”. Marian si alzò, andò verso il divano e si sdraiò. Quelle formiche dovevano sparire. Diede un’occhiata veloce a un paio di soffiate arrivate via mail. Ce n’era una alquanto improbabile, che diceva che Annie aveva ucciso la figlia. Il mittente sosteneva di essere un sensitivo. In quel momento le squillò il cellulare. Non conosceva il numero, ma rispose lo stesso. Era Farhi Salman, della Kripos. Disse che avrebbero dovuto fare una riunione al più presto. Aveva una voce piacevole e cristallina. Marian rispose positivamente, ma gli disse di rinviarla. Prima aveva bisogno di raccogliere del materiale.