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Annie era in centro alla ricerca di un vestito per la festa d’autunno del venerdì successivo. La città era piena di rumori: auto, tram, autobus e persone. Un misto di profumi, gas di scarico, freddo e cibi arrosto. Provò vari vestiti in diversi negozi, ma non riusciva a decidersi. Forse avrebbe potuto semplicemente usare la gonna che aveva già e una vecchia camicetta. In fin dei conti non aveva nessuna importanza. Avvertì un improvviso senso di vertigine. Si infilò dalla testa il vestito, che le fece elettrizzare e crepitare i capelli, e con calma si rivestì. La polizia non avrebbe mai scoperto cos’era successo a Thona. Fu una folgorazione improvvisa. Tutto sarebbe rimasto come prima: lavoro, bucato, fare da mangiare. E la gente avrebbe per sempre continuato a inclinare il capo dicendo: “Ecco la donna che ha perso la figlia”. Sarebbe diventata un fossile la cui vita avrebbe nonostante tutto lasciato un’impronta nella roccia. Indipendentemente da quello che indossava. Ringraziò la commessa e uscì dal negozio.
Mentre tornava alla macchina, passò davanti a un musicista di strada. Era vestito di nero, aveva una chitarra e una scatola di latta davanti a sé. Il cerone bianco da clown con i cerchi neri intorno agli occhi voleva dare l’impressione di bulbi oculari enormi e vuoti e suggerire l’idea della morte. Il giorno dopo sarebbe stato il giorno di Ognissanti. Thona era morta. Annie era arrivata a un punto in cui non ce la faceva più. Non le importava di sapere. Compose il numero di Marian Dahle, che rispose subito.
«Dove sei?»
«Sono agli orti comunali, Annie. E tu?»
«Per le vie del centro. Voglio sul serio che interrompiate le indagini. Che ci fai agli orti?»
«È venuto fuori qualcosa di nuovo. Non possiamo interrompere le indagini».
«Non ce la faccio a sopportare altro. È finita. Non ce la faccio più a vivere».
«Non dire così. Vengo da te. Myrtel ed Elly abitavano in un’altra casa quando Thona sparì».
Annie attraversò la strada senza guardare, ma sobbalzò all’indietro quando arrivò un tram. I freni stridettero. «Dove? Non vivono più negli orti adesso?»
«Sì, certo, ma nella grande casa rossa, vicino alla rotatoria».
*
Myrtel Haug scorse l’auto civetta della polizia dalla finestra della cucina. C’era della brina lungo i bordi del vetro, una trama di righe che ricordavano una pelliccia. Myrtel aveva paura. L’auto si fermò sullo spiazzo davanti alla casa e scesero due uomini. Poi arrivò un’altra macchina. Scaricarono delle valigette metalliche e si infilarono delle tute bianche. Glenn le aveva detto che Marian Dahle aveva cercato di ucciderlo, che gli aveva sparato a una gamba. Era sempre più fuori di testa quel ragazzo. Sarebbe sfociato tutto in una nuova catastrofe. I telegiornali non avevano parlato di sparatorie, perciò doveva essere una storia che si era inventato. Adesso si trovava in un posto sicuro, così aveva detto quando le aveva telefonato qualche giorno prima, e lei gli aveva dato ragione. Non sapeva che Elly era tornata a casa. Quando era in preda ad attacchi psicotici, come in quel momento, era pericoloso. Non voleva vivere una vita di mera sopravvivenza in prigione, ma ora la polizia avrebbe perlustrato la casetta.
*
Annie era di nuovo ebbra, seduta al tavolo della cucina con una bottiglia di vino. Guardandola, Marian non provava altro che disprezzo.
Lei non si ubriacava mai quando beveva, non in quel modo. Annie aveva perso il controllo. Era debole, perché ormai era troppo tardi per tutto. E si capiva, ma erano questi gli aspetti più difficili del lavoro in polizia. Erano deboli entrambe. Fu un pensiero che in quell’attimo si manifestò dentro di lei come scolpito nella pietra.
Doveva tornare alla casetta, dove adesso erano in pieno svolgimento le perlustrazioni tecniche.
Marian sentì se stessa dire: «Fatti passare la sbronza».
Annie piangeva. «Mi avete rovinato la vita. Non scoprirete nulla. Stavo bene prima che cominciaste. Sono andata dallo psicologo negli ultimi tempi, a Majorstua. Per i primi quattordici anni me la sono cavata, non serve a niente andare dallo psicologo».
Marian prese una delle sedie della cucina e si sedette. Era la prima volta che sul bancone vedeva dei piatti da lavare e le tendine avvolgibili erano per metà calate.
«Capisco che i trattamenti non ti aiutino, Annie».
Se l’avesse partorita lei la bambina, senza dubbio sarebbe stato tutto diverso. Tra madre e figlia si creava un rapporto simbiotico. Erano destinate a essere un tutt’uno, dopo aver condiviso il sangue per duecentosettanta giorni. Ma la sensazione della gravidanza le era sconosciuta. Il feto era, per definizione, un’escrescenza, un viluppo di cellule che crescevano fino a diventare un essere umano.
«A volte andare dallo psicologo peggiora la situazione», le disse Marian. «Lo so per esperienza personale. Entrare in terapia non è certo uno spasso. Di cosa hai parlato con il tuo psicologo?»
«Ho più che altro la sensazione che sia lui a parlare con me. Lo chiamo per nome, Frank», disse Annie svuotando il bicchiere del vino. «Ne vuoi?»
«No, devo guidare. Potresti darmi il suo numero di telefono? Gli hai raccontato quanto ti senti depressa?»
«No, lui dice che la mia capacità di percezione va ben oltre la normale sensibilità. Troppa empatia», aggiunse con un altro tono di voce. «Pensavi di andare a parlare con lui?». Annie prese il cellulare e inviò il numero a Marian. In un certo senso si sentiva un po’ sollevata.
«Grazie», le disse Marian quando udì il trillo nel proprio iPhone. «Una volta sono stata anch’io da uno psichiatra. Mi disse: immaginati un armadietto pieno di armi, pistole, lanciafiamme, bombe, granate, coltelli e spade. Cosa sceglieresti?»
«E tu che hai risposto?»
«Un lanciafiamme. Ma era la risposta sbagliata. Quella giusta era autostima. Capisci cosa voglio dire, Annie? Devi ritrovare la stima in te stessa».
«Non parlarne come se fosse facile. Lo sai che lavoro con le persone. Sono un medico. Non è una cosa che si può scegliere, ritrovare l’autostima».
«Hai ragione, scusami, Annie».
«Voglio delle risposte. Ormai niente mi rende più felice, già mi sto rattristando all’idea del Natale in arrivo».
«Avrai presto una risposta. La Scientifica sta analizzando la palla, potremmo trovare delle impronte digitali nuove. Ed Elly Haug ha acconsentito a collaborare con un metodo particolare, magari potrebbe riuscire a ricordare qualcosa».
«Tu cosa farai per la vigilia di Natale, Marian? Ti andrebbe di venire da me, con il tuo cane?». La stava supplicando con gli occhi.
«Mancano ancora due mesi alla vigilia di Natale», rispose Marian alzandosi. «Non farò niente. Mi piace così. Ora devo tornare al sopralluogo della scena del crimine».
Anche Annie si alzò. «Magari mi sento così solo perché è caduta un po’ di neve. Tutto mi ricorda qualcosa. Io e Thona seguivamo un rituale fisso per addobbare l’albero di Natale. Lei mi passava le palline e io sistemavo la stella in cima, poi lei disponeva i festoni».
«Gli alberi di Natale sono per i bambini», disse Marian in tono disarmante. Quando era piccola il Natale era sempre una grossa delusione. Si sforzò di sorridere.
Annie distolse lo sguardo. «Io non faccio l’albero di Natale da quindici anni. Forse potremmo vedere La carica dei 101?»
«Mi sembra un’idea piuttosto assurda». Non aveva nessuna intenzione di trascorrere la vigilia di Natale con Annie.
«Mi sarebbe piaciuto avere una sorella», disse Annie.
«Non è mai male avere una sorella», commentò Marian. Loro due non erano sorelle. Elly le aveva detto qualcosa di simile poco prima, aveva detto che Marian era come un’amica, ma lei non era amica di nessuno. Decise che sarebbe andata a fare due chiacchiere con lo psicologo di Annie prima possibile.