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Vittima di violenza accoltellata a morte all’ospedale di Ullevål. Questo era il titolo che prevaleva sui quotidiani in rete. Seduta nel suo ufficio, Marian ebbe come la sensazione che tutto quanto si stringesse in una morsa intorno a lei. Hallgrim Schavenius era stato ucciso. Erano state pubblicate foto del vecchio dalla faccia da bulldog con indosso la toga da giudice. C’erano anche le foto degli edifici dell’ospedale di Ullevål e di vari medici. “Disarmante e spaventoso”, aveva commentato uno di loro ai giornalisti. “Il poliziotto che era di guardia è stato stordito con il gas”.

Marian percepì immediatamente una sensazione opprimente, come se il soffitto la stesse schiacciando. Aveva comprato una bottiglia di Fun Light al lampone da versare in piccole dosi sul pavimento di casa, per le formiche. Adesso era sulla scrivania, dove risplendeva come un faro. Aveva passato un’altra nottataccia, con la sensazione che qualcuno stesse armeggiando dentro casa. Aveva dormito, ma un sonno molto leggero, con l’orecchio teso verso qualcosa che poteva essere acqua che scorreva, rumori che non era riuscita a identificare. E ora questo!

Uscì e andò a prendere l’ascensore per salire alla Sezione Omicidi.

Era pieno di gente, di investigatori che correvano avanti e indietro tra le varie stanze. Cato era nel proprio ufficio, vicino alla finestra, e parlava al telefono. Aveva un’espressione scura in viso quando si girò irritato verso di lei.

«Devo parlarti», disse Marian. «È urgente».

Cato doveva essersi accorto che si trattava di una questione seria, perché concluse la conversazione dicendo che avrebbe richiamato. «Che c’è?».

Marian prese fiato. «Quello che è successo a Schavenius… Annie Ormberg Johansen, la madre di Thona, mi ha dato un foglietto con i nomi di quattro uomini. Schavenius era l’ultimo. E…».

Cato la interruppe. «Marian, capisco che vorresti prendere parte alle indagini, ma non ho veramente tempo per certe cose adesso».

Marian si infiammò in viso. «Ma Cato. Non riesco a trovare Glenn Haug, che era in cima a quella lista, poi venivano Andreas Lindeberg e Joner. Annie me l’ha data prima che Schavenius… L’ha trovata nella stanza del personale di Lovisenberg. Credo che Glenn Haug sia morto».

Cato Isaksen aveva l’aria preoccupata. Il suo cellulare squillò un’altra volta e lui disse: «Non fare così, Marian, non complicare le cose. Il caso Thona e Glenn Haug non hanno niente a che fare con Schavenius. Ora devo rispondere al telefono. Ci vediamo», e si voltò.

Marian uscì e si avviò verso l’ascensore. Il cuore le batteva tanto forte da farle salire la nausea. Gli aveva detto del biglietto, ma si rendeva conto da sola di quanto quella storia apparisse inverosimile. Era troppo tardi, il biglietto non esisteva più. Ora non sentiva altro che un senso di vuoto che faceva saltare ogni barriera.

Quando rientrò nell’ufficio del seminterrato, le arrivò una telefonata di Annie. Voleva che interrompessero le indagini sul caso della figlia. Marian accostò la porta e sentì l’ansia risalire come un dolore fisico fin su nella gola. Ovviamente glielo chiedeva perché Schavenius era stato ucciso.

«Mi sembra che sia così terribile, Marian. Perché non siete riusciti a evitarlo? Su internet dicono che c’era una guardia fuori dalla stanza d’ospedale».

Marian voltò la schiena alla porta. Il viavai della gente che andava avanti e indietro dal guardaroba la faceva innervosire. «Ti ho già spiegato che ci sono cose che non posso dirti», mentì. «Non devi sentirti responsabile a causa di quel biglietto, Annie. La polizia ha preso la cosa sul serio, ma chi indaga non riesce sempre a scongiurare il peggio. E la colpa non è tua».

Entrambe tacquero per un istante.

«Ma Marian, immagino che gli investigatori vorranno parlare con me. Perché nessuno mi ha contattata per quel foglietto?»

«Devi smetterla di pensare a questa faccenda, Annie. Non sai quali azioni sono state intraprese. Se ne sono già occupati».

«In che modo?».

Marian alzò la voce. «Annie, adesso basta, non devi rovinare tutto. Stiamo seguendo una pista, più di questo non posso dirti. Devi tenere la bocca cucita e non parlare né con la stampa né con nessun altro di questa faccenda». Marian raddrizzò a schiena. «È chiaro?!»

«Sì, certo. Ma non credo di farcela a sopportare altro».

«Ti aggiornerò non appena saprò qualcosa, ma continueremo a lavorare sul caso di Thona come prima. Devi calmarti. Capisco che tutto questo sia molto pesante per te, ma cerca di riprenderti».

Dopodiché si lasciò andare sulla poltrona dell’ufficio e trascorse il resto della giornata assorta nella lettura compulsiva dei documenti sul caso Thona, interrotta soltanto da un salto a mensa. Il detto secondo cui il lavoro era il miglior rimedio contro l’ansia era vero. Si portò ancora una volta da mangiare giù nel seminterrato e pranzò in ufficio. Di ritorno verso casa, mentre faceva fare una passeggiatina a Birka, capì cosa fosse veramente successo. Era una sensazione nota, che le ricordava qualcosa. Una volta aveva sottratto la propria cartella clinica dallo studio di uno psichiatra. Se l’avessero inserita nel computer, rendendola così accessibile a tutti, non sarebbe mai riuscita a farsi ammettere alla scuola di polizia. La conclusione dello psichiatra era stata che lei in alcune situazioni aveva un’iperproduzione degli ormoni dello stress, adrenalina e cortisolo, che causava uno squilibrio nel sistema immunitario e in quello nervoso, da cui potevano a sua volta derivare azioni impulsive incontrollate.

Prese la bottiglia di Fun Light dal sedile del passeggero e scese dalla macchina. Dopo un rapido giro in giardino con il cane, lesse su internet che Schavenius era stato trasferito dall’ospedale di Ullevål a quello nazionale per l’autopsia. Riempì la ciotola di Birka, che si gettò subito sul cibo. La consapevolezza le bruciava dentro come una fiamma. Doveva tirarsi fuori da quella situazione, ma come? Buttandocisi a capofitto, pensò subito dopo. Sarebbe andata all’ospedale nazionale. Sfilò la giacca dalla spalliera della sedia e se la gettò addosso. Dal cellulare giunse il trillo di un SMS. Era di Karsten Tønnesen. “Credo di essere sul punto di scoprire qualcosa”, c’era scritto. Birka la guardò con occhi tristi.

«E va bene, vieni pure anche tu», disse Marian prendendo il guinzaglio. Poi si richiuse la porta alle spalle.

*

C’era un odore di morte, dolciastro e putrescente, nella sala dell’autopsia dalla luce bianca. Era situata nel seminterrato e perciò aveva solo delle sottili finestre lungo il soffitto. Ormai fuori era quasi buio. Le piastrelle sui muri erano tirate a lucido. Marian aveva indossato un camice, una cuffia sulla testa e delle protezioni in plastica sulle scarpe. Il cellulare lo aveva spento e riposto nella tasca della giacca nel guardaroba. Osservò il cadavere disteso su un fianco sul tavolo d’acciaio. Le lampade del soffitto illuminavano come riflettori il grosso uomo pallido che giaceva come un animale da macello davanti a lei. La pelle sembrava rassegata, come succedeva con i morti. La pancia prominente debordava sui lati e le ferite del collo si spalancavano verso di lei. Il volto grasso aveva le macchie tipiche dei cadaveri, violetto pallido e marrone-giallastro, che però avrebbero anche potuto essere delle contusioni dovute a percosse. Il sangue rappreso formava delle strisce sulla parte interna delle gambe sottili.

Erano presenti il professor Wangen e un suo aiutante. Era il medico legale più simpatico che ci si potesse immaginare, un uomo sportivo dai capelli grigi sulla cinquantina. Andava sempre dritto al dunque e non fece alcun commento sulla lunga assenza di Marian, né sulla cicatrice sul suo viso. Era un vero sollievo.

Il medico spiegò: «Sono stati gli enzimi ad attivare il processo. L’autolisi d’altronde parte dal cervello. Scusami per il gergo tecnico, immagino che certi dettagli non ti interessino. Cato Isaksen e un paio dei suoi arriveranno tra poche ore, così mi ha scritto. Ma ti do volentieri qualche ragguaglio sulla situazione fin da subito». Non le chiese il motivo della sua presenza all’obitorio. Prima dell’incidente ci era andata spesso. Seguiva da vicino le proprie vittime, in tutti i casi a cui aveva lavorato. Le sembrava che ci fosse un senso di dignità nel pensare alle vittime come proprie.

«Ho già avuto qui un altro signore con le stesse lesioni qualche giorno fa».

«Gustav Joner», precisò Marian, osservando il volto violaceo della vittima. Il rigor mortis iniziava dal viso, lo sapeva bene. Il medico legale avanzò l’ipotesi di un possibile ambiente omosessuale e Marian pensò ad Andreas Lindeberg, che era stato nel locale gay London Pub la sera prima di sparire. C’erano andati per scherzo, questo era quel che avevano dichiarato i suoi amici alla stampa.

Il medico legale si aggiustò i guanti. «Adesso ripulirò e definirò le ferite». Guardò Marian. «Non ti senti bene?»

«Sì, ma c’è una luce forte qua dentro e non ho mangiato. Anche se ora sono contenta di non averlo fatto».

«Ti capisco».

«Certo che ce n’è di gente depravata al mondo», proseguì il medico legale. Scosse la testa e cercò di sfoderare un sorriso. Rimasero per un attimo a guardarsi, prima che Wangen attaccasse a descrivere le lesioni del retto, inferte alla vittima con un lungo strumento affilato che era andato a colpire le interiora squarciandone una parte. «Ti lascio immaginare».

«Ma è sopravvissuto alla tortura».

«Stranamente sì, soprattutto se si tiene conto dell’età avanzata. È un uomo coriaceo».

E poi era stato ucciso mentre era sotto sorveglianza, pensò Marian. Era assurdo. Non c’erano telecamere nei corridoi e il poliziotto che era di guardia fuori dalla stanza non ricordava niente.

Marian si sfilò la cuffietta di carta e si rimise i propri vestiti, una volta fuori nel guardaroba. Salì le scale con una leggera corsetta e attraversò il corridoio fino alla reception e all’entrata principale. Il parcheggio coperto era dall’altro lato del piazzale. Scese i cinque gradini che arrivavano là sotto, raggiunse il proprio furgone e vi si chiuse dentro. Birka si alzò sul sedile posteriore.

«Stai giù», le fece Marian guardandola dallo specchietto retrovisore. Poi uscì veloce dal parcheggio e vide risplendere nel buio le cento finestre dell’ospedale, quando svoltò verso il centro città.

Joner e Schavenius presentavano le stesse lesioni interne nell’addome e nel retto. Non c’era alcun dubbio sul fatto che si trattasse dello stesso modus operandi, dello stesso assassino. Schavenius aveva inoltre delle ferite sul cranio e la gola tagliata. Ed era accaduto all’ospedale. Qualcuno aveva anche azzardato un collegamento tra questi due casi e la sparizione di Andreas Lindeberg e in effetti la cosa aveva un senso, se si pensava ai nomi sul biglietto. Ma che accidenti c’entrava tutto questo con il suo cold case? Con Thona? E perché Annie telefonava proprio adesso per chiederle di interrompere le indagini? Era per via dello shock provocato dall’ultimo assassinio, o forse Annie era direttamente coinvolta? Come avrebbe dovuto gestire Marian tutto questo? C’entrava in qualche modo il Reparto d’emergenza psichiatrica? I muscoli dello stomaco entrarono in tensione e si accorse di avere ancora sui vestiti l’odore della formalina. Doveva mantenersi concentrata sulla strada.

Il caso della bambina scomparsa
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