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Annie stava aspettando fuori in corridoio, vicino alla fila di finestre che guardavano in direzione del parcheggio, in attesa di veder arrivare la poliziotta che sarebbe passata a farle visita. La pioggia aveva lasciato sull’erba una trama di pizzo di un marrone sporco. Una paziente stava vagando agitata nel corridoio e una collega accorse a calmarla. Tutti i rumori sembravano fortemente penetranti; fuori udiva un camion della spazzatura che svuotava un cassonetto. Si passò le mani intorno alla vita. Sull’addome, sotto la giacca bianca in pile, aveva delle piccole smagliature argentate. Erano poche le tracce di Thona rimaste: quelle smagliature e un piccolo dislivello lungo la colonna vertebrale, dai fianchi fino alle scapole. L’aveva portata in braccio così tanto. Fino all’età di tre anni Thona desiderava sempre essere tenuta così, anche se ovviamente sapeva camminare. Era una cocca di mamma viziata. E non c’era da stupirsene, dato che Annie aveva solo lei. E poi c’era il certificato di nascita, conservato a casa, in un cassetto del comodino. Dopo la scomparsa di Thona i suoi sensi si erano acuiti, tutto le giungeva in maniera più diretta, odori, rumori, immagini, tutto era molto più intenso di prima. Poc’anzi aveva visto una coccinella nella stanza del personale, sul risvolto della foglia di una pianta in vaso che avevano ricevuto in regalo da un paziente. La coccinella era talmente lucida che scintillava, aggrappata saldamente alla pianta come una goccia di sangue dotata di zampe e di vita.
Le chiacchiere tra donne nella stanza del personale si trasformavano spesso in una cacofonia di superficialità e le mettevano ansia. Né Fanny né Margrethe avevano idea di come si sentisse. Dato che lavoravano con le persone, erano convinte di capire. Avevano frequentato insieme diversi corsi: di autodifesa, per lo sviluppo dell’empatia e per imparare come comportarsi con le povere anime distrutte. Ma in realtà le colleghe non capivano proprio niente di come ci si sentiva.
All’inizio le immagini del parco vuoto le passavano continuamente nella testa come un film e non riusciva a fermarle. Avrebbe voluto una tomba a cui far visita. Sentì uno sprazzo di speranza, seguito però subito dalla certezza che non avrebbe mai avuto quella tomba.
*
La porta era pesante, come se in quel posto volessero lasciare chiuso fuori il mondo. Anche una signora e un bambino sui nove anni dovevano entrare e Marian tenne loro la porta aperta e li osservò salire mano nella mano su per le scale. Il Reparto d’emergenza psichiatrica si trovava al pianterreno, a sinistra. La soglia dell’ingresso era consunta dalle orme di tutti piedi che erano usciti ed entrati. Sul pavimento in linoleum si alternavano riquadri lucidi e opachi. Una donna di mezz’età avvolta in una giacca troppo grande lavorata a mano si guardava intorno confusa con un’aria stizzita e scontrosa. Era un luogo fatto di lunghi corridoi e mura massicce, pianti e silenzi. In una vetrinetta appoggiata alla parete erano esposti dei vasetti decorativi dai colori tenui. C’erano medicine e cibo a sufficienza in quel posto in cui cercavano rifugio persone con vite difficili. Un giorno di silenzio. Ore di ozio. Alcune settimane prima aveva letto di Tolstoj. Qualche tempo prima di morire il vecchio scrittore si era allontanato dalla moglie e dai figli, lasciando una lettera: “Faccio quello che fanno di solito i vecchi della mia età che rinunciano al mondo per passare nella solitudine e nel silenzio gli ultimi giorni dell’esistenza”.
Non c’erano altri pazienti in giro, solo porte chiuse, ma in fondo al corridoio la madre di Thona la stava aspettando.
*
Annie Ormberg Johansen era una brunetta che si avvicinava ai cinquanta. Aveva le lentiggini, come nella foto. Dalla ricrescita grigia lungo la scriminatura si capiva che i capelli erano tinti. «Ti occupavi di malattie contagiose, prima, non è vero?», domandò Marian per rompere il ghiaccio. «Qui è tutta un’altra cosa».
«Sì, questo è un reparto psichiatrico di pronto soccorso». Annie Ormberg Johansen salutò con il capo un medico che passava svelto con il camice aperto. «Monitorare le epidemie è tutt’altra cosa in effetti. Sono stata per un po’ in malattia dopo la scomparsa di Thona, ma sono tornata al lavoro piuttosto in fretta, dopo appena una settimana, a dire il vero».
Annie osservò la detective. Aveva una grossa cicatrice che si estendeva dall’orecchio fin giù sulla guancia, un intreccio di pelle ispessita. Sembrava carina e sgradevole al contempo.
Alcune settimane prima era arrivata una coppia di poliziotti che voleva parlare con lei. Uno si chiamava Cato Isaksen. Era rimasta spiazzata quando le avevano comunicato di voler riaprire il caso della scomparsa di Thona. Il poliziotto le aveva detto che avevano intenzione di assegnarlo a una delle loro investigatrici più in gamba, affiancata da uno psichiatra. E quella donna sarebbe stata l’investigatrice in gamba di cui aveva parlato? Non sembrava molto competente. Ma forse l’impressione era sbagliata.
Marian indovinò i suoi pensieri. «Ho avuto un incidente», le spiegò.
«Lo vedo. Ho fatto domanda per lavorare qui qualche anno fa. Era diventato troppo difficile avere sempre sotto gli occhi quegli orti, anche se lavorare all’Istituto di salute pubblica era interessante. C’erano le epidemie di AIDS e la febbre suina. E negli ultimi tempi si sono occupati dell’ebola».
«Non ti ho trovata su Facebook», le fece notare Marian Dahle.
«Non ci sono. Non riesco a sostenere lo stress dei social. Sono una persona facilmente vulnerabile».
«E qui siamo in un posto per persone vulnerabili».
«Sì, ma oggi è una giornata abbastanza tranquilla. Abbiamo diciassette posti, due riservati al trattamento delle emergenze. Lavoriamo con persone che attraversano delle crisi. E io posso dire di saperne qualcosa».
Le persone che covano un dolore dentro di sé attivano spesso dei meccanismi di difesa. Marian ripensò a quello che aveva detto Cato: la madre aveva l’impressione che la considerassero responsabile della sparizione. Non si lascia una bambina di sei anni in un giardino nel mezzo della città.
Adocchiò un divanetto a due posti in fondo al corridoio. «Possiamo sederci?»
«È meglio se andiamo nella stanza del personale».
Niente lasciava supporre che Thona fosse stata trascinata in uno dei capanni degli orti quel giorno, la polizia non aveva trovato tracce. E tuttavia Annie era fortemente convinta che fosse andata proprio così, che fosse stato qualcuno da dentro, non da fuori. Non che pensasse ancora tutti i giorni a quei capanni, ma era un’immagine che le era rimasta impressa. «Sono convinta che l’abbia presa il figlio della signora dei piccioni», spiegò. «Hai parlato con Glenn Haug?»
Marian guardò la campanella sopra la porta. «No, ma ho scoperto dove vive».
«Ho sempre avuto la sensazione che fosse stato lui. Sembrava avere la coscienza sporca, ma la polizia lo lasciò andare».
*
Nella stanza del personale sedevano un uomo in anorak verde con un simbolo da cacciatore sulla manica e due donne con giacche di pile bianche. Il divano era simile a tanti altri che si trovano nelle stanze del personale e nelle sale insegnanti di tutta la Norvegia, con grosse zampe di legno chiaro. Sul tavolino in legno c’era una pianta in vaso rigogliosa e alla parete erano appesi un paio di poster. Si presentarono. L’uomo si chiamava Dan Brodahl ed era un medico del reparto del piano superiore. Si scusò per l’abbigliamento e spiegò sorridendo che la stagione della caccia era alle porte. Marian lo osservò. Aveva un viso dai tratti marcati e i grigi capelli ondulati pettinati con cura. La voce era profonda e gradevole.
Margrethe Moe era un’infermiera psichiatrica. Aveva l’aria di una contadinotta dal cuore d’oro, con un seno abbondante e i capelli un po’ spettinati. L’altra donna si chiamava Fanny, aveva un’abbronzatura e un fisico scolpito nient’affatto naturali, le sopracciglia eccessivamente depilate e un ciuffo bianco dritto sulla testa, ma sembrava comunque una megera. Rigirava tra le dita il cerchio che aveva all’orecchio sinistro, delle stesse proporzioni del braccialetto. Un tipo assai bizzarro per un reparto in cui erano ricoverati dei poveri miserabili, pensò Marian, ma le venne subito in mente che forse certe persone potevano esercitare un effetto tranquillizzante sui pazienti. Le giacche bianche indossate dalle donne dovevano essere una specie di uniforme. Nessuno di loro lavorava con Annie quando Thona era sparita.
«Cercherò di rendermi utile compiendo qualche progresso nelle indagini», commentò Marian, rendendosi conto da sola di quanto quella frase suonasse fredda. «Preferisci che parliamo in privato?»
«I miei colleghi conoscono tutta la storia. Non ho niente da nascondere». Il volto di Annie Ormberg Johansen si adombrò.
Dan Brodahl incrociò lo sguardo di Marian per qualche frazione di secondo, spingendo la sua memoria su sentieri che non percorreva da tempo. C’era forse una specie di intimità tra Annie e quell’uomo? Trovava strano quello che aveva detto Annie, che non aveva niente da nascondere. Brodahl si alzò.
«Devo andare di sopra a cambiarmi, ho appuntamento con un paziente». Rimase esitante sulla soglia per qualche secondo prima di allontanarsi.
Marian continuò a osservare l’ampia schiena dell’uomo, finché la porta non si fu richiusa e nell’aria della stanza rimase una fragranza di dopobarba. Raddrizzò le spalle, osservando il pallido poster alla parete, che raffigurava dei tulipani in un vaso. Nel vano della finestra erano ammucchiati dei libri sulla psiche e il self-help.
Margrethe Moe servì il caffè, un leggero liquido amarognolo versato da una caffettiera vecchio stile.
Marian si concentrò su Annie: «Sono passati tanti anni, ma con il tempo può anche darsi che venga fuori qualcosa di nuovo. Quegli orti sono in un certo senso la scena del crimine. Ancora non ci sono stata. Annie, ripensando a quel giorno, avrai certamente la sensazione che si prova quando all’improvviso ci appare chiaro un nesso che prima non avevamo compreso. Un dettaglio che fa guardare tutto con occhi nuovi».
Bevve un sorso di caffè e posò la tazza sul tavolino.
«Non ho niente di nuovo da aggiungere. Continuo ancora a chiedermi se avrebbe fatto qualche differenza averla lasciata in quegli orti cinque minuti prima o cinque minuti dopo».
Il tremito nella voce di Annie Ormberg Johansen era appena percettibile. Faceva una gran fatica a parlare in maniera naturale, a stare seduta in maniera naturale, a muoversi in maniera naturale. A bere il caffè in maniera naturale.
«Thona aveva delle amiche?»
«Non moltissime. Eravamo soprattutto io e lei, come puoi immaginare. Ma ovviamente giocava con i figli dei vicini».
«Il padre di Thona vive in Australia. Voi due non avevate un buon rapporto, vero?»
«Direi proprio di no, era uno psicopatico. Sì, lo so, è un’espressione forte. Cercai di resistere, poi però rimasi incinta, lui si trovò un’altra e se ne andò. Ci separammo. Lui abita ancora laggiù. La vecchia madre di John, la nonna di Thona, è ancora viva. Sta alla casa di riposo Frognerhjemmet, ma non vado mai a trovarla».
«Perché no?»
«Perché non è mai riuscita a perdonarmi. Ci furono liti violente all’epoca, quando John mi lasciò. E poi la morte di Thona».
«Parli di morte, ma non sappiamo se sia morta». Nell’attimo stesso in cui pronunciò quelle parole, Marian si accorse di quanto fosse sbagliato dare alla madre una speranza quando non ce n’erano affatto.