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Solo quando fu passata la mezzanotte, riuscì a calmarsi abbastanza da sentire fame. Sbatté le uova in una ciotola di plastica e versò il composto nella padella calda. Nell’arco di un paio di minuti la frittata era pronta. La trasferì in un piatto e si sedette a tavola. C’erano già delle formiche nelle piccole pozze di liquido mortale.
Schavenius era morto e Joner pure. Qual era il legame tra Annie e quei due uomini? Aveva detto che non ce la faceva più, che era tutto troppo difficile da sopportare per lei. Se le fosse successo qualcosa, Marian ne sarebbe stata responsabile. Possibile che Annie fosse un’assassina a sangue freddo?
In quell’istante udì delle voci nella tromba delle scale, due uomini che parlavano insieme a volume alto. Una delle voci era quella dell’artista. Marian si accostò alla porta. Era scoppiato in una fragorosa risata. Doveva far mettere uno spioncino. E un allarme. Birka si alzò con grande sforzo, accomodò le zampe nella giusta posizione, le si avvicinò e fiutò l’aria, ma Marian la respinse con un ginocchio. La porta del vicino si richiuse e fuori si fece silenzio. Andò a prendere in bagno la scopa e la incastrò sotto la maniglia della porta d’ingresso. Se qualcuno avesse rotto i vetri degli stretti riquadri della porta, lo avrebbe sentito.
Si insinuò a letto, tra le lenzuola fredde, e ripensò a quello che Elly aveva detto di Thona, che era più un insetto che una farfalla. A ben vedere era un’osservazione piuttosto raccapricciante. Era passato del tempo da quando aveva parlato con Elly, le avrebbe telefonato il giorno seguente.
Si addormentò, ma fu svegliata poco dopo da un rumore. Aveva smesso di piovere. Il frigorifero emetteva un ronzio uniforme e fuori in strada stava passando una macchina. Il legno produceva dei lievi scricchiolii, soprattutto quando fuori faceva freddo e dentro era caldo. Come adesso. Ma quello che aveva sentito era un rumore diverso. Marian fissò il disegno sul copripiumino. L’orologio digitale del comodino segnava le 01:11:09. Sotto la sporgenza del tetto le rondini avevano costruito dei nidi, che però in quel periodo erano vuoti, quindi non potevano essere loro a produrre quel rumore. E tra l’altro era notte e gli uccelli non andavano in giro nelle ore notturne.
In quel momento si accorse che Birka non c’era e si alzò dal letto. Si inginocchiò e aprì di colpo l’anta dell’armadio. Il pannello posteriore era fisso al proprio posto e il foro rotondo era ancora coperto dal nastro adesivo. Forse c’erano degli animali infestanti nella soffitta? Topi? Era possibile. Quelle buche lungo le mura di fondazione della casa potevano essere state scavate dai topi.
Birka non era neppure sotto il letto e non c’erano altri posti dove nascondersi lassù. Marian si calò lungo la scala. Dov’era Birka? La finestra accanto al bancone della cucina era illuminata da una luce flebile, che andava e veniva con deboli guizzi. Era l’aurora boreale? Poteva succedere in quel periodo dell’anno, persino sopra la città, fasci bianchi e verdi che creavano delle bellissime formazioni nel cielo.
Marian sbirciò fuori dalla finestra. C’era un falò di sotto nel buio, un falò di medie dimensioni, fiamme aguzze che si innalzavano sulla ghiaia. Proprio davanti alla finestra della cucina dell’anziana signora. Marian deglutì. Era frutto della sua immaginazione? Guardò di nuovo fuori. Le fiamme si erano fatte più alte. Poi arrivò Birka trotterellando dall’ingresso. Com’era riuscita a scendere dalla scala? Era caduta? Marian controllò svelta il corpo del cane, ma vide che non aveva niente di rotto.
Indossò la giacca sopra la camicia da notte e infilò i piedi nelle scarpe da ginnastica. Poi sfilò la scopa da sotto la maniglia e la gettò lontano, mandandola ad atterrare sul pavimento con un tonfo acuto. Si precipitò giù per le scale e posizionò il passeggino nello spiraglio del portone, per essere sicura di poter rientrare in casa. Nessuno in vista, ma più in là, vicino al tavolo in ferro, la zona degli alberi e dei cespugli era immersa nell’oscurità. Dietro l’angolo della casa c’era un secchio con dell’acqua piovana. Fu allora che si accorse che era stata presa della legna dalla catasta a ridosso del muro. Il telo incerato che di solito la ricopriva giaceva a terra tutto appallottolato. Lo raccolse e l’acqua putrida che si era accumulata in una delle pieghe le ricadde sui piedi.
Guardandosi rapida intorno, gettò l’acqua del secchio sul falò, che sfrigolò e poi emise un fumo nero che puzzava di fuliggine. Il fuoco era stato acceso con i volantini pubblicitari che aveva visto poco prima.
Un freddo gelido le risalì lungo le gambe nude. Forse era il caso di chiamare i pompieri? Avvertirli che poteva aggirarsi un piromane nella zona? Alla fin fine la casa era protetta dai beni culturali. Qualcosa tuttavia la trattenne.
Prese un rastrello e sparse i resti del falò. In base alle prescrizioni antincendio certi mucchi di carta non dovevano stare negli ingressi delle case. Rappresentavano un bel regalo per qualunque piromane. Qui però non si trattava di un piromane. Se qualcuno avesse voluto dare fuoco alla casa, lo avrebbe fatto, non si sarebbe limitato a un piccolo falò. Lui voleva perseguitarla, causarle una sofferenza prolungata, avvertirla che sarebbe accaduto qualcosa di terribile. Si trattava senza dubbio dello stesso uomo che le aveva telefonato. E lei sapeva benissimo chi era: Glenn Haug. Al contempo, però, pensò che avrebbe potuto essere morto. Fissò il giardino immerso nel buio. Forse era stato qualcun altro? L’artista? Farhi Salman, oppure Annie? Si portò una mano alla bocca, assalita da conati di vomito. Si nascondeva qualcosa di perverso in quello che stava accadendo e lei non riusciva a distinguere cosa fosse. Era come trovarsi su un terreno melmoso, in una foresta nera, tutta sola. Doveva andare seriamente a farsi consegnare un’arma. Aveva bisogno di difendersi.