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Andreas si incamminò verso il portone d’ingresso con la grata di volute in ferro battuto davanti al vetro. Notò che il motociclista era di nuovo parcheggiato dietro una macchina. Forse stava aspettando qualcuno? La visiera era ancora abbassata. Estrasse la chiave dalla tasca dei pantaloni, aprì il portone ed entrò come se niente fosse, ma la sensazione di poco prima, di qualcosa che non ricordava, era riaffiorata. Ovviamente Andreas non fumava mai in casa e ora sentiva il bisogno di una sigaretta prima di salire di sopra. Il portone stava per richiudersi, quando il motociclista lo riaprì con forza, spingendolo con entrambe le mani. Più tardi Andreas si sarebbe ricordato di quell’istante: il portone che si era quasi chiuso, prima che l’uomo lo riaprisse come un cowboy che entra in un saloon. Restò per un attimo sulla soglia e l’attimo dopo era dentro. Il colpo del portone che si richiudeva e della serratura che si bloccava creò un’eco nell’atrio, nel cortile e oltre, come una biglia che rimbalza contro un muro. I palazzi con la loro mole si innalzavano a formare una specie di pozzo nel cortile con l’asfalto bucherellato. Alcune finestre si illuminarono.

L’uomo gli si parò davanti. Andreas sorrise istintivamente, ma l’atmosfera non era quella giusta. Posò la bottiglia a terra, poggiò la schiena ai pannelli grigio-azzurri che rivestivano il muro fino a metà altezza e si infilò svelto la sigaretta in bocca. Poi porse all’altro il pacchetto. Erano le dieci e cinque.

L’uomo aprì un piccolo spiraglio nella visiera. Non voleva fumare.

«Potresti darmi una mano giù in cantina? Ci sono stati i ladri». La voce era fredda e attutita.

«Lo stai chiedendo a me?», disse Andreas.

«Ho bisogno d’aiuto». La voce aveva un tono stridulo, come nei ragazzi che hanno appena passato la pubertà. Tradiva un certo nervosismo. La placca di lamiera ondulata avvitata dietro alla rimessa per le biciclette emise uno schianto secco. Il sole l’aveva riscaldata e fatta espandere nel corso della giornata, ma ora c’era solo la luce artificiale dei lampioni e l’aria era rinfrescata. Doveva esserci una finestra aperta, perché tra i palazzi risuonò la risatina isterica di una bambina.

«Mi sono appena trasferito. Abito in un monolocale e non ho una cantina». Andreas era stato nello scantinato una sola volta, giusto per vederlo, e così sapeva che c’era un passaggio che conduceva al palazzo accanto. Nel corridoio tra le cantine c’erano delle scatole lucide di veleno per topi. La porta d’accesso era nel cortile sul retro. Schiacciò la sigaretta sotto la scarpa e si voltò per salire le scale. Quella era casa sua. Fu allora che gli arrivò un pugno sulla schiena.

*

Sbatte lo zigomo contro la parete in muratura e le ginocchia cedono di colpo. Si accascia e cerca di proteggersi come può, mentre il ritmo delle pulsazioni cambia. Gli cade il pacchetto delle sigarette e la bottiglia si rovescia. Il motociclista lo afferra per il braccio e lo tira su, poi con l’altra mano apre il marsupio e ne estrae un coltellino. Andreas lo intravede di scorcio, ha una lama ricurva ben affilata. Un braccio gli cinge la gola e con uno strattone lo trascina all’indietro. Il manico in legno del coltello è freddo sulla pelle del collo. La paura è un nodo che gli si stringe nel petto. Sente l’odore della tuta di pelle, un aroma acre di cuoio e olio. Il motociclista gli intima sibilando di tenere la bocca chiusa e gli flette il braccio dietro la schiena, tanto che Andreas si solleva sulle dita dei piedi per il dolore. L’uomo indirizza la punta del coltello alla nuca e lo spinge verso il cortile sul retro, tra le piante in vaso e il salice.

Andreas alza lo sguardo verso la finestra aperta, ma non c’è nessuna ragazzina in vista. Sente l’eco del proprio urlo tra i muri del cortile, ma è fiacco, privo di forza. «Tieni il becco chiuso», gli intima l’uomo con una voce in falsetto. Viene sospinto verso la porta della cantina, incapace di pensare. Sul muro ci sono dei graffiti, scritte arancioni, viola e nere. L’uomo spalanca la porta e lo spinge giù per la ripida scala con i gradini di legno marcio, dove lui per poco non inciampa. Un maniaco, un pazzo furioso. Il panico scorre come elettricità nel corpo. C’è odore di terra, muffa e polvere di intonaco; le luci al neon del soffitto scrostato si accendono in automatico con un clic, una dopo l’altra, mentre loro si addentrano nel corridoio sporco, dove il sale ha disegnato strisce bianche sui muri. Ci sono file di trappole per topi: nelle fognature di Oslo i ratti sono centinaia di migliaia. Andreas cerca il cellulare in tasca. Con le braccia ben aderenti al corpo, prova a digitare un numero, uno qualsiasi, il primo della rubrica. O il centesimo, non fa differenza. In alcuni punti il soffitto è così basso che sono costretti a chinarsi. Dei tubi di ventilazione rotondi corrono lungo le pareti. In tutto il corridoio ci sono rimesse delimitate da reti, piene di scatoloni, lampade, sci e biciclette.

Andreas sta sudando freddo, ha le mani umide e il cellulare gli scivola, finendo per terra. Il motociclista gli pianta una gamba nei reni, lo spinge in avanti e dà un calcio al cellulare, che scivola sotto una delle recinzioni, dentro una rimessa. Nel telefono non ci sono app superflue, niente Twitter, applicazioni per lo shopping, né GPS, le ha dovute togliere tutte. Arrivano a una porta in ferro dipinta di grigio con una maniglia a leva. L’uomo la abbassa e lentamente la porta si apre, con i cardini che cigolano. Poi spinge Andreas nell’oscurità. Una zaffata di aria putrida da sotterraneo li avvolge, prima che la porta si richiuda con un rombo pesante.

*

Alla ricerca febbrile di un interruttore, Andreas si graffiò le nocche delle mani sulla parete ruvida. La testa gli ronzava come una centrale elettrica. Per poco non cadde su qualcosa, ma riuscì a restare in piedi. Poi trovò l’interruttore e lo sollevò. Era un rifugio antiaereo, ed era vuoto, fatta eccezione per due scatole vicino alla porta. La stanza era all’incirca di quindici metri quadri. Sapeva che il palazzo era del 1887, ma il rifugio sembrava nuovo. Sentì il telefono che squillava nel corridoio, un suono lontano, oltre la porta in ferro. Il suo sguardo fu catturato per un attimo dalle cifre digitali dell’orologio. Segnavano le 22:30:09.

In un attimo ricordò tutto: quella notte era sopraggiunto un furgone, in Rosenkrantz’ gate, mentre tornava a casa dal London Pub. I fari anteriori lo avevano accecato, dentro sedevano due uomini con il casco. Si era guardato più volte alle spalle, con la sensazione che stesse arrivando qualcuno che voleva aggredirlo. La memoria era collegata all’ippocampo, una regione del lobo temporale, era l’ultima cosa che aveva studiato a scienze prima di lasciare la scuola.

Quel ricordo era come una macchia nera nella coscienza. Si trattava dello stesso furgone che era fuori dal supermercato poco prima. Provò a gridare, ma non uscì neanche un suono. Benché ogni parte del suo corpo urlasse, quel grido restava muto. Gli piacevano le scienze. Da bambino voleva fare l’astronauta, volare lontano dalla Terra, vedere i paesaggi e il mare a strisce bianche e blu. Fluttuare nello spazio, a una distanza infinita. E ora, invece, era .

Sentì un risucchio in un tubo che scendeva dal soffitto verso il pavimento. Fu l’unico rumore. Sopra la porta dei ragni morti color sabbia pendevano da una ragnatela. Le porte come quella era fatte apposta per non avere serrature. Forse il motociclista era lì fuori? Andreas posò la mano sulla pesante leva metallica e la spinse lentamente verso il basso.

Il caso della bambina scomparsa
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