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I tecnici della Scientifica avevano tolto tutti i mobili dalla casetta e posizionato due riflettori nel giardino immerso nel buio notturno. Davanti alla porta era stata spazzata via la neve e c’erano dei rametti sottili tagliati e ammassati in un mucchio.

«Mi sembra che non abbiate più bisogno di me». Marian fece un cenno con il capo a uno dei tecnici, si voltò e guardò il cane. «Vieni Birka, torniamo a casa». Si chinò e agganciò il guinzaglio. Tønnesen non si era più fatto sentire, nonostante lo avesse informato della casetta. Doveva aver fin troppo da fare con il caso degli uomini torturati.

Dall’altro lato della strada, sulle tombe di Nordre Gravlund, brillavano diversi lumini accesi. La neve in realtà non era bianca, appariva così solo perché rifletteva tutta la luce del sole. Come sarebbe stata la sua vita dopo la morte di Birka? Birka sarebbe morta presto, ma era solo un cane.

Forse avrebbe dovuto riprendere a fare jogging, ne era passato di tempo dall’ultima volta. E avrebbe dovuto farlo senza Birka. Prima correvano insieme, talmente veloci da sfiorare a malapena il terreno con la suola delle scarpe. Dopo si sentiva sempre piena di vigore e le venivano in mente idee originali. Si accorse che lo spaventapasseri portava una nuova giacca a vento blu. E sotto una vecchia vestaglia con dei merletti. Il cappello era lo stesso, ma più storto di prima. Il giorno dopo avrebbe telefonato all’ipnotizzatore per prendere un appuntamento per Elly. Prima, però, doveva parlare con lo psicologo di Annie. Gli aveva inviato un SMS e lui aveva risposto che poteva riceverla già il giorno seguente. Evidentemente aveva capito la gravità della situazione.

*

Era l’alba. La stanza del personale era un bugigattolo rovente. Fuori i pazienti vagavano come i pianeti intorno alle orbite. Margrethe Moe osservò le colleghe, Annie e Fanny, che stavano parlando dei quotidiani del giorno, posati sul tavolo. Era martedì 25 ottobre. Il torturatore verrà arrestato, campeggiava sulla prima pagina del «Dagbladet». Il torturatore erano loro. Margrethe però era stanca, la casa in muratura era un luogo terrificante. Il fratello era più calmo prima; adesso era in uno stato quasi impossibile da sopportare. Margrethe avrebbe dovuto fare le valigie e andarsene, ma non poteva, per via della madre.

Parlavano di cosa poteva essere successo a Joner e a Schavenius e del perché. Annie però si zittì. In fondo alla pagina si leggeva: «Andreas è probabilmente morto». C’era un’intervista alla madre, che nella foto sembrava distrutta. Andreas era morto. Era stato un figlio di papà della Oslo bene, che aveva lasciato la scuola per cominciare a lavorare in un asilo. Aveva abusato di due bambini mentre li aiutava ad andare in bagno. Margrethe Moe si costrinse a guardare la foto. Gli occhi del ragazzo la osservavano sorridenti. Aveva visto altre foto di lui e in tutte sorrideva.

Annie era stanca, ma diceva di non voler rinunciare ai propri turni.

«È la cosa migliore», intervenne Margrethe. «Startene da sola in casa non è una buona idea. Immagino che verrai alla festa d’autunno?»

«Sì, certo che verrò», confermò Annie con un sospiro. Si alzò e uscì dalla stanza.

Margrethe la guardò allontanarsi. Glenn Haug aveva rapito la figlioletta di Annie ed era riuscito a evitare la galera. Per quindici anni. Era un relitto umano, ma sarebbe diventato ancora più miserabile. Sarebbe stato messo sul trono. Il suo cadavere non sarebbe mai più stato ritrovato. Su questo erano d’accordo, ormai avevano già attirato abbastanza l’attenzione. Sarebbe stato sepolto nel bosco e sarebbe sparito, come Andreas. Già la prima volta che Cato Isaksen era stato al reparto, lo aveva sentito parlare con Annie e dirle che Glenn Haug viveva in un pensionato nei pressi del centro commerciale di Oslo City. Margrethe aveva contattato la previdenza sociale per farsi dare il suo numero di cellulare. Uno di quelli, così lo aveva definito l’impiegata. Margrethe aveva detto di lavorare al reparto psichiatrico. Aveva mentito, raccontando che Glenn Haug era stato da loro per chiedere aiuto, ma che poi si era dileguato. Non c’era da stupirsi, aveva commentato l’impiegata. Margrethe aveva verificato la presenza di telecamere di sorveglianza nel parcheggio. Ce n’erano, ma non nella parte più interna, dove si trovavano i cassonetti della spazzatura. Gli aveva inviato un messaggio e lui aveva acconsentito a incontrarla.

Il caso della bambina scomparsa
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