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Marian scese gli scalini dell’ingresso, svoltò dietro l’angolo della casa e giunse sul retro delle villette a schiera, in un giardino nascosto da una siepe rigogliosa. La cameretta di Thona era un quadrato giallo compatto nel buio. Sotto c’era una cassapanca di plastica. Il cuore le batteva all’impazzata mentre vi si arrampicava per spiare all’interno. La stanza era vuota. L’immagine dei 101 dalmata era appesa alla parete tappezzata di carta da parati rosa con pallini bianchi e foglioline verdi. Annie non era stesa per terra, né sul letto. Marian bussò al vetro, ma non ebbe risposta.

Tornò alla macchina, cercò su internet il numero del Reparto d’emergenza psichiatrica e telefonò. La guardia notturna le rispose che Annie non era stata al reparto. «C’è una festa…».

«Sì, lo so, ma credo che poco fa Annie sia passata da lì con una collega. Sono della polizia, si tratta di una questione importante».

«Ah, capisco».

«Avete un sistema di telecamere di sorveglianza?»

«Sì. Se Annie è stata qui, posso vederlo. A che ora?»

«Le undici e mezza circa, o poco prima».

«Ti richiamo non appena avrò controllato».

«Sì, te ne prego», rispose Marian.

*

Annie cercava di orientarsi con la luna come unica fonte di luce. Scese lentamente lungo uno stretto sentiero che portava verso il bosco, affiancato da una specie di canaletto di scolo naturale. All’improvviso cadde sul manto nevoso e percorse l’ultimo tratto scivolando, finché non fu arrivata in fondo. Sentì un bruciore diffondersi lungo una coscia e sulla schiena. Il sottobosco, coperto da basse piante di erica lucente, era parzialmente privo di neve, perché le grosse conifere avevano protetto il suolo dai fiocchi che cadevano dal cielo. Le sanguinava il palmo di una mano. Si sollevò a quattro zampe e proseguì carponi per un pezzo. Fu allora che la vide: una bomboletta spray per metà coperta dalla neve. La raccolse e la ripulì. Sopra riportava il simbolo di un teschio.

*

Marian si allontanò dalle case a schiera e riprese la strada principale. Stava aspettando la telefonata della guardia notturna. L’attesa era insostenibile. Un pensiero stava prendendo campo nella sua mente. Si trattava di qualcosa che aveva visto poco prima nella cameretta di Thona, quando aveva sbirciato dentro. Non ricordava cosa fosse, ma quella consapevolezza le creava un senso di compressione, come una fascia legata stretta intorno alla fronte. Di quali dettagli si trattava? Erano i colori?

Ripensò alla sinestesia, alla commistione delle percezioni sensoriali che portava a classificare nomi, giorni e settimane in base ai colori. Ma non era quel tipo di colore. Questo era un colore concreto. Forse era il caso di tornare indietro per dare un’altra occhiatina?

In quel momento la chiamò la guardia notturna. «In effetti Annie è stata qui», le rivelò. «È arrivata da sola ed è andata direttamente al reparto del piano di sopra».

«Di che reparto si tratta?». Marian accostò al lato della strada.

«È il Centro regionale di assistenza per l’infanzia e l’adolescenza».

«Aha».

«Margrethe Moe è entrata poco dopo e sono uscite insieme. Margrethe sosteneva Annie, che aveva l’aria di sentirsi poco bene».

«Margrethe Moe? Puoi controllare se riesci a vedere la sua auto nel parcheggio? Se sai che tipo di macchina ha».

«Ha un furgone nero. Io adesso sono in corridoio e vedo solo la mia macchina là fuori, ma magari Margrethe è venuta in moto».

«In moto?»

«No, probabilmente d’inverno non la usa. Ma qual è il problema?»

«Ora devo riattaccare, la batteria del cellulare si sta esaurendo. Potresti inviarmi subito un SMS con il numero di Margrethe Moe?».

Furgone nero e motocicletta. C’era un collegamento? Perché Annie era andata nel reparto del piano di sopra? Forse per controllare gli archivi? Forse aveva trovato i nomi degli uomini indicati nel foglietto riposto nella Bibbia? Doveva essere così. E Margrethe Moe l’aveva sorpresa.

La guardia notturna le inviò il numero via messaggio. Marian lo cercò rapidamente e trovò l’indirizzo. Era lontano, fuori città, a Enebakk. Stormørkveien 1.

*

Tønnesen rientrò nella saletta per gli interrogatori. «Una pattuglia sta andando a prendere Elly», disse, fissando gli occhi sulle mani inquiete di Myrtel. «Perché Glenn ha tanta paura della polizia?».

Myrtel Haug restò muta.

«Comunque, prima di tutto, dovremo fare il test del DNA», la informò.

«Su cosa?»

«Sullo scheletro. Sui resti che abbiamo trovato dietro lo spaventapasseri».

Qualcosa nel viso di Myrtel gli procurò un brivido freddo lungo la schiena. Quello fu un momento di svolta. Myrtel Haug fu assalita da una paura spasmodica.

*

Annie era in pericolo. Questa consapevolezza le schiarì le idee. Qualcosa le balenò nella mente con il chiarore di un lampo: la foto di Thona, gli occhi e i capelli chiari raccolti in due treccine sottili, la bocca sorridente senza i dentini anteriori, il vestito bianco e le calze rosa, le scarpe grandi con i calzini dal bordo in pizzo cadenti. Marian trattenne il respiro. Un film cominciò a scorrere al rallentatore nella sua testa, ma al contrario. Nello specchietto retrovisore incrociò il proprio sguardo stupito. Prima veniva la fine, e poi l’inizio. La consapevolezza si diffuse come fuoco dentro di lei, mentre una sequela di pensieri si faceva strada nel cervello. L’ippocampo, la struttura del lobo temporale, si trasformò all’improvviso in un nodo gordiano che si scioglieva. La verità la trafisse come una lama affilata. Ricordò le parole che aveva pronunciato Elly la prima volta che si erano viste negli orti. “Quando abitavo con la mamma, avevo una stanza con la carta da parati rosa, con pallini bianchi e foglioline verdi”.

*

Fu come se tutta l’aria venisse aspirata dalla stanza. Fare il test del DNA sullo scheletro, aveva detto. La verità sarebbe venuta a galla, non c’era via di scampo. Myrtel tolse un bruscolo dal tavolo. Presto le loro azioni sarebbero sfociate in una condanna. Aveva sempre pensato a se stessa come a una donna cinica e calcolatrice, ma possedeva anche dei sentimenti. Una lunga serie di eventi sarebbero presto venuti alla luce e poi sarebbero seguiti la condanna, l’espiazione e la vecchiaia. Voleva tornare alla solitudine dei giorni che trascorrevano uno dopo l’altro con regolarità negli orti. Ricordava tutto quanto come se fosse un’immagine scolpita nel cervello con uno strumento affilato. Se Tønnesen avesse saputo cosa stava pensando! E invece non ne aveva idea. «Posso fumarmi una sigaretta?»

«Non adesso», le rispose lo psichiatra. «Più tardi. Credo che esista una terza versione. Chi è la Elly con cui ha parlato Marian Dahle?».

Il caso della bambina scomparsa
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