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C’era molta gente negli orti quel giorno, una marea di ragazzini sbraitanti di tutte le età e gruppetti di adulti sparsi un po’ ovunque. In verità Myrtel Haug li odiava, tutti quanti. I giorni migliori erano quelli lavorativi, quando era brutto tempo. Allora poteva starsene in santa pace nel suo mondo. Quando era negli orti, il respiro si faceva più profondo e tranquillo; quel terreno era cresciuto insieme a lei e ne conosceva ogni linea e ogni formazione.
La gente si godeva quella giornata di sole e preparava i propri orti per l’inverno, dissotterrando i bulbi per conservarli in cantina fino alla primavera successiva, caricando in macchina le sedie e i tavolini, e riponendo i vasi di argilla e terracotta nei capanni, per chi li aveva.
Glenn aveva di nuovo cambiato vestiti allo spaventapasseri il giorno prima, infilandogli una camicia azzurra, sul tardi, verso mezzanotte. Myrtel aveva avuto la sensazione che fosse lì ed era andata da lui. Le gocce scintillanti della rugiada brillavano nel buio verde scuro. Era il suo altare, quello spaventapasseri. Era solito dire che quello per lui era il luogo più simile a una chiesa e a volte vi celebrava dei riti, posandovi sotto dei ninnoli che aveva rubato a qualcuno, piccoli astucci o gioielli di plastica, oggetti senza valore. Myrtel toglieva tutto, perché quello spettacolo la faceva soffrire in maniera indescrivibile. In fondo quello era pur sempre suo figlio. Era da tempo che non lo vedeva così malridotto, stanco e trasandato. Con quella ragnatela tatuata su metà del volto sembrava un pazzo. Era pazzo. L’ultima volta che Myrtel aveva dimenticato di chiudere la porta a chiave, lui era entrato dentro casa, le aveva preso il portafoglio dal cassetto della cucina e si era portato via 200 corone. Il giorno prima era turbato perché si parlava di nuovo di lui sui giornali, per via di quel caso che era stato riaperto. E quella poliziotta era stata al pensionato, per cercare di mettersi in contatto con lui. «Quella sbirra del cazzo», aveva detto Glenn. «Ha lasciato un biglietto da visita nella mia stanza. È stata anche qui?». Myrtel aveva dovuto ammettere di sì, ma aveva aggiunto che non c’era da preoccuparsi. Era passato tanto tempo. «Che le hai detto? Che le hai detto? E l’altra casa?». Myrtel gli aveva assicurato di non aver detto un accidente. Aveva frugato in cerca delle sigarette. Chissà che avrebbe potuto fare Glenn questa volta?
*
Sedeva nel suo appartamentino da studentessa di Trondheim. Lì aveva una cameretta tutta sua, ma conviveva con altre due persone, che quel giorno erano al caffè, perché era sabato. Naturalmente aveva fatto ricerche sul caso Thona diverse volte su Google e ormai le veniva la nausea al solo sentir menzionare quel nome. La nonna diventava scontrosa e taciturna tutte le volte che qualcuno vi accennava. Era come se all’immagine di Thona corrispondesse una zona vuota nella mente di Elly. Doveva esserci qualcosa che aveva dimenticato, che la nonna non voleva che lei ricordasse.
Era stata spesso vicina alla verità, ma il suo cervello si rifiutava. Tutto il suo sistema nervoso era in stato di allerta adesso. La nonna era irritata e infuriata per la riapertura del caso di Thona. L’unica cosa che Elly ricordava era la luce chiara dei giorni successivi alla sparizione di Thona, come se il vetro della finestra fosse stato uno di quei vetrini utilizzati per concentrare i raggi del sole e accendere il fuoco, una lente d’ingrandimento che rendeva gli alberi all’esterno enormi. Lei era in gamba, lo diceva la nonna. Aveva una fantasia vivace, ma era la verità che stava cercando. Perciò aveva sollevato gli occhi per guardare fuori dalla finestra, cercando di vedere qualcosa in mezzo al verde degli orti e di andare fino in fondo a quella storia. Ma tutto appariva rimpicciolito, o ingrandito. E poi ricordava i vestiti sporchi. Era quasi sempre sporca. Non solo perché giocava in mezzo alla terra degli orti, ma anche perché la nonna non era certo la persona più pulita del mondo. Nella prima casa non c’era la vasca da bagno ed Elly odiava fare la doccia da piccola, perciò la nonna doveva costringerla a lavarsi in un catino, cosa che sicuramente non accadeva più di una volta al mese, e solo perché a scuola non pensassero che trascurava la bambina. Lo diceva spesso, la nonna, che se si fosse rifiutata di farsi il bagno, sarebbero venuti i servizi sociali a prenderla. Ora che era cresciuta, ovviamente si faceva la doccia senza bisogno che nessuno la costringesse. Provava una sensazione di distanza, freddezza e solitudine. Era perché si trattava di una verità troppo torbida por poterla guardare in faccia. Digitò il numero di telefono della nonna, che le rispose subito, e la salutò: «Ciao, sono Elly».
*
Myrtel Haug era sulla piccola altura accanto alla serra. Elly aveva le sue cose a cui pensare. Perché non le lasciavano in pace? Marian Dahle le aveva detto di telefonarle non appena Elly fosse tornata a casa. E ora Elly sarebbe venuta, per qualche giorno, ma Myrtel non aveva certo intenzione di telefonare a nessuno. Ne aveva abbastanza.
Terminata la conversazione, si accese una sigaretta e si avviò verso la casetta dall’erba alta. Era grigia e minuta e dentro erano cresciuti cespugli spogli e giovani alberelli. A volte si aveva come l’impressione che negli orti si aprissero sentieri nuovi, fiancheggiati da chine inaspettate e margini scoscesi da cui c’era il rischio di cadere. Qualcuno aveva seminato un orticello di piante aromatiche dietro la casetta, che però non era visibile dal punto in cui si trovava Myrtel in quel momento. Lentamente soffiò il fumo fuori dalla bocca. Quanto la facevano lunga con quella bambina. Il giorno dopo avrebbero cominciato a lavare l’interno della serra e a togliere i residui di fango dai vetri. Il pavimento era di terra, con strisce di muschio, ed emanava un odore dolciastro e putrido. Prese un’ultima boccata dalla sigaretta, la gettò via e la calpestò.
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Quella domenica Marian accompagnò Tønnesen all’aeroporto di Gardermoen. D’un tratto aveva come l’impressione che avessero lavorato insieme per un tempo infinito e che le loro strade stessero per dividersi per sempre. L’aereo partiva all’una. La conversazione filò via liscia mentre attraversavano zone di campi e alberi, con la ferrovia sulla sinistra. Ripassarono insieme quello su cui Tønnesen avrebbe dovuto investigare. Avrebbe dovuto raccogliere campioni di DNA delle due ragazze e infatti aveva con sé gli appositi tamponi di cotone. E avrebbe parlato con la loro madre da solo, senza che John Johansen fosse presente, e raccolto campioni anche dai due adulti. Entro pochi giorni avrebbero forse avuto una risposta. Poteva essere tutto molto semplice, ma Marian non voleva fosse così. Avrebbe voluto scoprire un’altra verità.
La leggerezza che provò entrando in autostrada di ritorno verso Oslo era indescrivibile. Era come liberarsi di un padre rompiscatole, pensò con un leggero sorriso. Dio mio, era davvero un disastro nelle relazioni interpersonali. Ora poteva cominciare a lavorare sul serio.
I corridoi erano pervasi dal silenzio tipico della domenica. Nella sala mensa, quel giorno priva di personale, il televisore con il suo brusio era acceso sul canale del telegiornale. Un gruppo di investigatori che lei non conosceva sedeva intorno a un tavolo, ciascuno con la propria tazza di caffè. Qualcosa li fece scoppiare a ridere.
Marian si prese una Coca-Cola e una baguette già pronta e incellofanata dal bancone. Sullo schermo comparve un’intervista ai genitori di Andreas Lindeberg. «Ultimamente c’era qualcosa di strano che vi ha fatto insospettire nel comportamento di Andreas?» chiese il reporter.
Marian osservò la coppia Lindeberg. «No», ripose la madre, «Andreas non aveva niente di strano». Il sangue sembrò defluirle dalla faccia e si accasciò su se stessa, senza aggiungere altro.
Marian prese l’ascensore per scendere nel seminterrato. Mentre mangiava, entrò nella pagina Facebook di Andreas Lindeberg per dare un’occhiata. L’ultimo post era delle 20:36 della sera in cui era scomparso: c’erano una sua foto con la bocca spalancata e un quadro di Topolino realizzato da una coppia di artisti che si facevano chiamare Broslo e che Marian non aveva mai sentito nominare. La pagina era piena di commenti inseriti dai suoi amici, per lo più ragazzi, ma anche qualche ragazza, e dai commessi del negozio di sport in cui lavorava.
Marian ingoiò l’ultimo boccone ed entrò nel sistema informatico della polizia. Finì la Coca-Cola. «Sciocchezzuole», aveva detto Cato. Come no, se si volevano considerare le molestie a dei bambini dell’asilo come delle sciocchezzuole. Cato non voleva che lei andasse a ficcare il naso nei sui casi. Le indagini non erano concluse. Andreas Lindeberg avrebbe potuto essersi tolto la vita per via di quella faccenda. Indubbiamente aveva paura che si venisse a sapere. Si suicidavano spesso, gli adolescenti. Quando si arrivava al dunque, non avevano una grande capacità di resistenza.