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Erano ormai quasi le dieci quando se ne andarono. Tønnesen aveva un seggiolino per bambini nella vecchia Honda. Per il nipote. Condusse l’auto fuori dalla zona delle villette a schiera e Marian non fece parola del fatto che il giorno seguente sarebbe andata alla casa di riposo di Frogner per parlare con l’ex suocera di Annie.
«È un caso sfuggente», commentò Tønnesen. «Nessuno ha visto o sentito niente. E tra l’altro la sorella di Myrtel Haug non risponde al telefono. Riproverò lunedì. Pensando al padre di Thona, mi verrebbe da dire che la soluzione potrebbe essere banale. Dobbiamo andare in Australia».
Marian gli lanciò un’occhiata in tralice. «Il budget non è sufficiente per tutti e due, perciò ci andrai tu. E presto».
Tønnesen si voltò e la guardò nel buio. «Ne parlerò domani con Salman».
Quando passarono per Ryen, Tønnesen aggiunse: «Non mi sembra che le soffiate che ci sono arrivate finora dicano qualcosa di nuovo. Un anonimo ha scritto che la colpevole è Annie Ormberg Johansen. Immagino tu abbia visto quella mail».
«Sì. Alquanto improbabile».
«Però è una donna forte», proseguì Tønnesen. «Possiede una rigida capacità di sopravvivenza. Una madre pericolosa è assai peggio di un rapinatore con il passamontagna».
Marian deglutì. «Rigida? Aveva forse qualche scelta?»
«Lo dico in senso positivo. Per il fatto che ha ricominciato a lavorare appena una settimana dopo la scomparsa della figlia. E che le piace stare da sola».
«Anche a me piace stare da sola». Percorsero il tunnel, attraversarono Vika e Solli plass, per poi imboccare Bygdøy allé.
«Potrebbe essere successo qualcosa, magari è stato un incidente», insisté Tønnesen, assillandola con la sua voce pacata. «Dobbiamo isolare i dettagli che potrebbero avere un qualche significato e concentrarci unicamente su quelli. Proseguire le indagini sulla base dei dati che conosciamo. La teoria di Myrtel Haug è che Thona sia stata presa da un uomo. Non ha detto rapita, ma presa».
Marian si lasciò sfuggire una smorfia che le causò un’ondata di dolore che dallo zigomo si diffuse in alto a tutto il cranio. Tønnesen era un sapientone petulante. Diverse soffiate dicevano che Glenn Haug aveva vagato fuori di testa per la città dopo la sparizione di quindici anni prima. Chi lo conosceva bene affermava che quell’episodio aveva rappresentato per lui un duro colpo da cui non si era più ripreso. Molti di quelli che avevano scritto erano gli stessi di allora. «Sappiamo bene chi è il colpevole», disse Marian.
«Glenn Haug», confermò Tønnesen, «oppure il padre di Thona. Salman ci ha chiesto di inviargli delle informazioni, di tenerlo aggiornato su tutte le novità. Di novità però non ce ne sono».
«Mi ha telefonato, ma siamo appena agli inizi». Marian scosse la testa irritata. «Non ho certo intenzione di mettermi a scrivere verbali prima di avere informazioni da presentare».
Karsten Tønnesen si fermò lasciando il motore acceso e lanciò un’occhiata al maniero di Sophus Lies gate.
«Che casa impressionante!», esclamò.
«Credevi che vivessi in una casupola per menomati?». Marian sorrise.
«Con tanto di torre e intagli in legno. Quei cespugli di lillà, però, hanno bisogno di essere potati. I rami sono troppo alti».
«Questa casa ha più di cento anni e quei cespugli sono altrettanto antichi. Non ci penso neanche a tagliarli».
«I cespugli di lillà hanno bisogno di essere potati. Immagino ci vivano altre persone in questa casa. Ci sarà pure qualcuno che li può tagliare».
«Sei davvero un rompiscatole. Staresti bene con Myrtel. Con i vicini preferisco evitare di averci a che fare».
«Sei ancora giovane, Marian. Sei ancora in tempo a cambiare. Prova a essere più socievole».
Marian aprì la portiera e scese. Ne aveva avuto abbastanza. Ce lo vedeva Tønnesen, a fare il pater familias, seduto a capo di un lungo tavolone da pranzo con le candele accese. Come quelli che vivevano nelle villette di Holmenkollen, ma erano socialisti. Bastava un’occhiata alla camicia di flanella per capirlo.
Si chinò dentro la macchina, tenendo la mano sulla maniglia della portiera.
«Sei ancora giovane», le ripeté.
«Vedi di trovarti un biglietto per l’Australia». Sbatté la portiera e restò a guardare le luci rosse dei fari posteriori mentre l’auto si allontanava.
Tremava. Sperava con questo di non aver rovinato il loro rapporto. Poi si incamminò verso il cancello ed entrò in giardino. Sembrava un giardino selvatico, come uscito da un vecchio dipinto.
Le intenzioni di Tønnesen erano buone. Era lei a essere scorbutica. Era la sua caratteristica peggiore. Vide qualcosa che si muoveva dietro le piante in vaso della grande finestra al pianterreno: Thyra Vinding aveva assistito all’intera scena. Poi notò qualcos’altro: c’era una luce nell’appartamento della torre, alle sue finestre. Non aveva acceso niente prima di uscire, eppure sembrava che ci fosse una luce che fluttuava. Forse una fiamma, o forse era qualcuno che illuminava la stanza con una torcia?
*
Marian aprì lentamente la porta d’ingresso e sbirciò dentro casa. Non si sentiva il benché minimo rumore. Birka le venne incontro sulle zampe rigide, poi si tirò su e abbaiò. Birka non si sollevava mai su due zampe. Per un attimo le si oscurò la vista e sentì una fitta dolorosa attraversarle la gola. C’era qualcosa che non quadrava. Il cuore le batteva a un ritmo irregolare. Diede uno sguardo in salotto. La candela al centro del tavolo in legno gettava bianchi guizzi spettrali nell’ampia stanza. Lei però non l’aveva accesa, o forse sì? C’era stato qualcuno in casa?
Aveva comprato quella candela a pile da Clas Ohlson, per la modica cifra di 79 corone. Era di cera ed emetteva una luce dall’effetto naturale. Marian si avvicinò al tavolo, la afferrò e la spense. Voleva evitare fiamme vere e così aveva scelto quella candela con un pratico pulsante d’accensione e spegnimento. La usava solo la sera. Quella casa sarebbe bruciata nel giro di un’ora se qualcosa avesse preso fuoco o se un fulmine fosse caduto sulla torre. Si sfilò le scarpe, poi guardò in alto verso la camera da letto. Ovviamente nessuno era entrato in casa. Doveva essere stata lei ad accendere la candela. Accese la lampada del soffitto, che con la sua luce giallognola creava un effetto intenso a contrasto con il buio esterno. Osservò la propria immagine nel vetro della finestra. Era già il 9 settembre e il giorno dopo sarebbe stato sabato. Il tempo faceva sbiadire i ricordi e lei aveva dimenticato molto di quello che era accaduto nell’ultimo anno. Aveva la sensazione di vivere in quel posto da molto, di viverci da sempre.