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Già il giorno successivo, venerdì 16 settembre, alle quattordici, venne reso noto il nome dell’uomo trovato morto nei pressi di Carl Berners plass. Si chiamava Gustav Joner ed era il portiere di un condominio nella zona di Tveita. Viveva solo e non aveva parenti stretti. Per questo si era potuto rendere pubblico il nome così in fretta. Sulle lesioni che gli erano state inferte la polizia manteneva al momento il massimo riserbo. Marian allontanò il pensiero dell’occhio e andò all’Archivio di Stato per cercare di scoprire qualcosa in più sulla palla. Voleva capire se per caso il numero che rimandava alla postazione sullo scaffale fosse sbagliato, ma non scoprì niente di utile. Era frustrante. Presto avrebbe dovuto presentare dei risultati. La sfiorò il pensiero che potesse essere stata distrutta, ma non aveva trovato documenti che lo attestassero. Quando dei vecchi reperti indiziari venivano distrutti, si doveva stendere un rapporto.
Tornò in questura. Lasciò Birka sul sedile posteriore della macchina e riprese l’ascensore per scendere in ufficio. Trovò dei fogli con il logo della polizia, li mise nella stampante ed entrò nel sistema.
Cato non voleva farle avere un’arma. Ma adesso tutti i poliziotti erano temporaneamente armati e lei era autorizzata. Cosa voleva farci con un’arma? Ne aveva bisogno. I rumori in soffitta erano reali. Forse l’artista era un pazzo che la spiava? O forse si trattava di qualcosa di più grande e pericoloso? Forse era lei che stava rischiando di cadere in uno stato simile alla pazzia, una condizione che non aveva il coraggio di ammettere a se stessa. Un’altra parola per descrivere la perdita di memoria era il termine amnesia. Parola che richiamava alla mente traumi, lesioni alla testa, stress e depressione. Nel frattempo, però, le ferite esterne erano diventate sempre meno problematiche.
Tra i documenti nel cassetto dello schedario trovò una vecchia autorizzazione per detenzione di armi. Le lettere le si accavallarono davanti agli occhi. La vecchia fotocopiatrice a colori sarebbe stata in grado di produrne una copia uguale all’originale e poi sarebbe bastata un’aggiustatina con il correttore alla data di registrazione.
Quando il documento fu pronto, fu colta da un pesante senso di panico. Non poteva certo usarlo. Entro un paio di giorni Tønnesen sarebbe tornato dall’Australia.
*
Annie era nella camera di una paziente quando dalla radio giunse la notizia. La voce del cronista era appena un mormorio in sottofondo, come un brusio dall’effetto rilassante, ma la udì comunque chiaramente. La voce del giornalista aveva detto: Gustav Joner. Restò come paralizzata. La stanza sembrò precipitarle addosso, le pareti si stagliavano nette davanti a lei, come se fosse lì per la prima volta, pareti bianche con tende dai colori delicati, come se ne vedevano di solito in posti del genere.
Gustav Joner era il nome che occupava il posto numero tre nella lista che aveva a casa. Doveva telefonare a Marian Dahle e raccontarle della Bibbia e dell’uomo dal nome giallo, Gustav Joner. La realtà che aveva intorno sembrò avvilupparsi su se stessa. E la paziente nel letto, quel povero essere tormentato, divenne tutto a un tratto invisibile nella sua giacca di maglia, con le ginocchia tirate verso l’alto in posizione fetale. Il poster attaccato al muro sopra il letto mostrava un cervello visto da prospettive diverse.
Annie si alzò di scatto e uscì dalla stanza. La paziente le urlò dietro qualcosa, ma lei proseguì dritto.
Fanny, Margrethe e Dan sedevano nella stanza del personale.
«Devo andare a casa», disse Annie. «Non mi sento bene. Uno di voi potrebbe per favore andare nella stanza dodici?». Diede una rapida occhiata all’orologio, che segnava quasi le tre. «Sarebbe bene che ci andaste subito».
«Ci vado io», rispose Fanny alzandosi. «Volevamo farti sapere che stanno organizzando una grande festa d’autunno. Dan ha detto che ci sarà musica dal vivo, non è vero Dan? Ci sarà posto per quattrocento persone. Dan vuole ballare», aggiunse sfacciata.
Dan arrossì leggermente.
«Vogliamo vedere le sue doti di ballerino», ridacchiò Margrethe. «Ci saranno di sicuro tanti bei dottori». Margrethe rise, ma poi si diede un contegno. «Annie», chiese, «ti senti male?».
Annie trasse la borsa a sé. «Sono solo molto stanca».
Andò al guardaroba, si cambiò le scarpe e si infilò il soprabito.
Una volta uscita, lasciò la macchina nel parcheggio e andò agli orti comunali. Erano quindici anni che non ci metteva piede. Era come se la scena nella camera della paziente si fosse svolta in un altrove, come se quello che aveva detto il cronista al telegiornale fosse frutto della sua immaginazione. Gustav Joner era stato ucciso. Dopo che lei aveva trovato quel foglietto!
*
Aprì il cancello ed entrò. Prima dritto, poi a destra. Quel giardino sembrava un dipinto grigio su cui i colori si erano appena asciugati. La memoria la riportò a quel giorno d’agosto di quindici anni prima, ma una parte del cervello tentava di proteggerla. Gli alberi si erano fatti più alti, le piante più rigogliose. Il silenzio era completo, non volava neppure una mosca. Proseguì sul sentiero erboso verso la casetta di Myrtel Haug, ma non provava niente. Si era tenuta lontana da quegli orti per quindici anni.
I pali dell’essiccatoio con i girasoli appassiti gettavano delle ombre sull’erba giallognola dell’autunno. Poi vide lo spaventapasseri e prese consapevolezza della propria presenza in quegli orti. La sua vita dopo Thona: lavoro, spesa, cucinare, fare il bucato, appuntamenti dallo psicologo. Tutto era cominciato lì, dove l’altra vita terminava. Ora quelle erano le uniche cose che le rimanevano, per il resto c’era solo il vuoto. E adesso che finalmente si trovava in quel posto, non provava né autocommiserazione né paura, solo rabbia. Thona era una bella bambina. Aveva avuto una vita felice? Le continue pretese della figlia stancavano Annie. Che razza di madre era stata?
Si recò sul posto dove aveva lasciato Thona. Sembrava diverso adesso; sembrava cambiato, come i paesaggi cambiano nei secoli. Forse era quella l’unica cosa che contava, i cambiamenti nel paesaggio. Se un Dio esisteva, perché non le inviava un segno? Quella domanda si fece più pressante quando il sole squarciò le nuvole, ma le balenò subito in mente una risposta: forse lo aveva fatto con la Bibbia che aveva trovato sotto la panca, Dio le aveva inviato un segno. Ma era davvero esistita quella Bibbia?
Da dove si trovava, Annie vedeva dritto in direzione del capanno a cui mancava un parete. Forse lui era lì dentro e l’aveva vista lasciare da sola la figlia. Forse aveva aspettato che le bambine finissero di giocare con la palla e che Thona restasse sola, spinto dal desiderio di un corpicino caldo di bimba e disposto a sacrificare una vita per qualche secondo di piacere nel giardino del Diavolo. O forse prima l’aveva caricata sulla macchina per portarla in un posto più adatto?
Pescò il cellulare dalla borsa, compose il numero che aveva salvato tra i contatti sotto Marian D e, non appena udì la voce della poliziotta, ebbe un crollo.
Si accorgeva da sola di star parlando in maniera sconnessa, che le sue parole sembravano le chiacchiere di un’isterica.
«È tutto vero. Ho trovato un biglietto dentro una Bibbia nella stanza del personale, prima che quel portiere venisse ucciso. C’era anche il nome di Andreas Lindeberg. E in cima quello di Glenn Haug. E poi c’era un altro nome che non avevo mai sentito prima».
Marian Dahle taceva. «Sono informazioni importanti, Annie», dal tono della sua voce Annie si rese conto che non le credeva.
«Voglio fartelo vedere. Vado a prendere la macchina e passo da casa per prendere quel biglietto. Sei in questura?»
«Sono a casa», rispose Marian Dahle. «Tu sei al lavoro?»
«Sono agli orti comunali. Arrivo il prima possibile. Dove abiti?».