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La finestrella del bagno era ricoperta dalla condensa e il pavimento era cosparso di strisce di carta igienica. La gente non aveva neanche un briciolo di decenza. Annie aveva bevuto troppo, si sentiva la nausea in gola. Pensava a Frank Moe. Poco prima lei e Fanny avevano parlato degli uomini e Fanny aveva detto di avere paura quando usciva la sera. Non che succedesse spesso, ma aveva letto del caso di una donna violentata da un uomo nascosto nel bagno delle signore. L’aveva stuprata indisturbato, poi era risalito nel ristorante, aveva pagato la cena in contanti ed era uscito per strada passeggiando come se niente fosse.
Doveva telefonare a Marian. Erano le 22:25. Frugò nella borsetta in cerca del cellulare, ma quando lo estrasse, qualcuno entrò nel bagno. Annie rimise dentro il telefono e uscì dal vano della toilette. Fuori c’era Margrethe che la fissava. Scura in viso.
Margrethe si passò una mano tra i capelli. Il volto di Annie sembrava sul punto di sciogliersi, la pelle era grigia, il trucco colava dall’angolo di un occhio. L’adrenalina entrò in circolo. Il chiacchiericcio morboso dei colleghi là fuori si era trasformato in un’orribile cacofonia sotto l’effetto dell’alcol. Lei invece era perfettamente sobria. Ma cosa aveva mai la povera piccola Annie? Cosa aveva capito poco prima? Aveva cambiato espressione quando aveva visto il biglietto di Frank. Il cervello di Margrethe passò rapido in esame la situazione. Forse Annie aveva visto il foglietto che lei aveva nascosto nella stanza del personale? Forse lo aveva preso e portato via?
Le espressioni dei loro volti si rispecchiarono l’una nell’altra, ciascuna in un proprio ruolo chiaramente definito. Annie aprì il rubinetto e tenne per un minuto le mani sotto l’acqua fredda.
«Ho mal di testa», disse come per scusarsi.
«Vuoi andare via?». Margrethe si passò la mano tra i capelli. «Posso accompagnarti a casa».
«No, no, non ho intenzione di andare via», rispose Annie.
Nel ritmo della conversazione c’era qualcosa che non le piaceva. Furono investite da un muro di frastuono, musica e calore quando rientrarono nella sala. Tornarono insieme al tavolo e Annie si voltò leggermente per distogliere il viso da Margrethe. Tra di loro si era venuta a creare una scissione netta, uno sgradevole senso di estraneità che entrambe percepivano chiaramente.
Quando furono sedute, Fanny si protese in avanti e chiese a voce alta: «Tutto bene, Margrethe?».
Il frastuono era così forte che Margrethe si limitò semplicemente a sollevare le mani per segnalare che non c’era niente che non andasse.
«C’è qualcosa che ti preoccupa?». Adesso Fanny le era accanto. Le sue labbra rosso fuoco erano ripassate con una matita colorata.
«Va tutto bene», rispose Margrethe irritata, «ma quel purè di rutabaga non era certo una prelibatezza».
Fanny si rimise a sedere.
Annie bevve un sorso di vino. Aveva l’impressione di non dormire da cento anni. Avrebbe svuotato il bicchiere e poi sarebbe sgattaiolata fuori per telefonare a Marian. Ma ecco tornare quel tizio appiccicoso, che la studiava come se fosse stata un diamante. In quel momento, tuttavia, era il benvenuto, le avrebbe permesso di concentrare l’attenzione su qualcosa di diverso da Margrethe, che seguiva ogni sua mossa. Quando un’ora dopo Annie riuscì a uscire dalla sala, di Margrethe non c’era traccia in giro.
*
Era dentro il guardaroba, in mezzo a tutti i cappotti e gli impermeabili attaccati ai supporti metallici. Da lì vide la schiena di Annie avvolta nel soprabito sparire attraverso la porta. Aveva notato ogni dettaglio del suo comportamento: Annie era pericolosa. Era accaduto qualcosa, quando le aveva consegnato il biglietto del fratello. Gli occhi sbarrati di Annie le avevano detto tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Aveva riconosciuto la calligrafia. Per un lungo momento Margrethe si sentì quasi sollevata. Presto tutto sarebbe finito. Erano quasi giunti alla meta.
*
La brina si era adagiata come una barba sottile sull’antica casa in legno. Le strade erano deserte, come sempre di notte. I lampioni erano circondati da aureole di ghiaccio. Marian aprì la portiera del bagagliaio, aiutò il cane a salire e gettò dentro il borsone. Aveva trovato ben più di una semplice vanga; aveva racimolato una torcia, dei guanti e un piccone e aveva infilato tutto dentro la borsa. Un sottile strato di brina copriva anche la macchina. Marian grattò via il ghiaccio dal parabrezza, accese il cruscotto, poi tolse la suoneria al cellulare, che posò sul sedile. Per un attimo l’aria fredda dell’impianto di condizionamento le diede la sensazione di svenire. Fu come se la strada svanisse davanti ai suoi occhi e si ritrovò in un limbo, nel nulla più totale. Tirò leggermente più su il berretto e inalò profondamente. Quando riacquistò il controllo di sé, ebbe per un istante la sensazione di cadere verso un punto oscuro. Nessun altro sapeva della testimonianza del vecchio e della donna delle pulizie polacca. Era sicura che Tønnesen non avesse neppure aperto la mail.
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Margrethe Moe staccò il cappotto dal gancio e uscì seguendo Annie. Una volta fuori, fu investita dal freddo. Ripensò ad Andreas Lindeberg. Avrebbe potuto sfuggirle, nell’atrio di quel palazzo. Avrebbe potuto, ma non aveva la spina dorsale per farlo. Si era arreso troppo alla svelta. Adesso Margrethe aveva di nuovo la stessa sensazione che aveva avuto allora. Una connessione cerebrale che si innescava, il fulmine che cadeva e le fiamme che bruciavano. Era il modo di pensare e di agire dei terroristi. Dan ovviamente non sospettava niente delle sue visite notturne nel suo ufficio. In quel reparto non c’era nessuno del personale di notte.
*
Marian parcheggiò accanto alla chiesa e restò per un attimo seduta con la nuca reclinata sul poggiatesta. Il berretto le pizzicava sulla fronte. Sul sedile del passeggero aveva una busta di panini al cardamomo che aveva comprato poco prima. Il cielo era una superficie scura senza stelle dietro alle guglie della chiesa, ma da oriente stava sopraggiungendo una nuvola di foschia. Tutto quello che aveva passato non era necessariamente da considerarsi come una punizione. In quell’istante avvertì un senso di nausea. Che infanzia da schifo aveva avuto! Lei, però, non era una vittima, era una donna con delle esperienze che potevano risultarle utili. Ora andava tutto molto meglio. La sua attenzione non era più interamente rivolta ai dolori, quella follia evidentemente l’aveva guarita. Uscì dalla macchina, prese il borsone sul retro e agganciò il guinzaglio di Birka. L’aria era fredda, le uscivano nuvolette di vapore dalla bocca. Un uomo dalla pelle scura con felpa e cappuccio le si fece incontro con fare guardingo sul marciapiede. Era uno spacciatore, che Marian allontanò con un gesto della mano. Pullulava di gente come quella nella zona di Sagene.
La casa rossa di Myrtel era al buio. Sicuramente stavano dormendo, lei ed Elly. Marian proseguì lungo il recinto. Sul lato opposto della strada c’era il cimitero. Arrivata all’altezza del cancello che guardava verso Nordre Gravlund, rallentò il passo. Il cancello era aperto. Marian entrò e sganciò il guinzaglio di Birka, che l’aveva seguita a capo chino. Era una pazzia quello che stava per fare, ma nessuno sarebbe venuto a saperlo. Se non avesse trovato niente, avrebbe rimesso la terra al suo posto, anche se Myrtel se ne sarebbe inevitabilmente accorta. Se avesse trovato qualcosa, avrebbe avvertito la questura. Per un istante si sentì vuota dentro. Poi salì la tensione.