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La notte di quella domenica era nera come il carbone. Trasportarono Gustav Joner, nascosto dentro un tappeto persiano, verso la porta aperta e lo trascinarono lentamente oltre la soglia, sul pianerottolo illuminato. Era stordito dal gas e completamente privo di sensi. Aveva aperto la porta del tutto ignaro, quando avevano suonato. Era tardi, perciò aveva pensato che fosse uno degli inquilini che aveva bisogno di qualcosa.
Le scale dei condomini come quello erano sempre illuminate a giorno. Restarono in ascolto: non si udiva nessun rumore di passi. Prima avevano aperto la porta dell’ascensore e l’avevano bloccata con una pila di giornali perché restasse semiaperta e nessuno potesse sorprenderli arrivando silenzioso da uno dei piani superiori. La fila di cassette delle lettere era contrassegnata da colori psichedelici. Il pavimento odorava di pietra. Era di pietra: grigia con intarsi bianchi e neri. La porta d’ingresso dell’appartamento di Joner si riaccostò senza far rumore, un piccolo scatto ed era chiusa. Ovviamente indossavano guanti, caschi integrali e tute in pelle.
Più in alto si udì il rumore di una porta, che creò un’eco nei piani sottostanti. Si arrestarono, ma poi proseguirono, sorreggendo ciascuno un’estremità del pesante tappeto arrotolato. Lo avevano avvolto con del nastro telato, perché Joner non scivolasse fuori. Il portone esterno era tenuto aperto da un sasso. Ai piani superiori tornò il silenzio. Non arrivava nessuno.
Ormai erano usciti e si trovavano sul vialetto pedonale. Avevano pensato di portare fuori il portiere passando dal lato del giardino, ma gli appartamenti vicini avevano grandi finestre rivolte verso quella fascia erbosa e qualcuno avrebbe potuto essere sveglio, seduto nel proprio salotto buio a guardare fuori.
Il furgone era parcheggiato al riparo di un cassonetto accanto all’area giochi per bambini. Trasportarono il tappeto più svelti che poterono verso la vettura, lungo quel vialetto con gli alberi di tuia come soldati ai due lati. Furono costretti a posare per un attimo il tappeto a terra, per poterlo afferrare meglio. Si destreggiavano come domatori di animali sulla pista di un circo, impavidi sotto gli occhi di tutti, ma il carico era più pesante di quel che si aspettavano. Nell’aria svolazzavano minuscole gocce di pioggia. Il crepitio del traliccio dell’alta tensione si sentiva persino da lì.
C’era una luce alle finestre del condominio di fronte. Semmai qualcuno li avesse visti, avrebbe semplicemente pensato che fossero due tizi che trasportavano un tappeto in macchina. Riuscirono a spingere Joner dentro il bagagliaio e richiusero la portiera. Il fratello tornò di corsa verso l’ingresso per togliere i giornali che bloccavano la porta dell’ascensore e il sasso al portone. E poi se ne andarono.
Si allontanarono dall’isolato e imboccarono la strada dai lampioni arancioni. Passarono davanti a una costruzione che somigliava a una fabbrica e a una pensilina degli autobus deserta. Non c’erano corse a quell’ora della notte.
*
Martedì 13 settembre Marian tornò agli orti comunali. Non aveva avuto ancora notizie di Tønnesen, ma evidentemente con la differenza di fuso orario era difficile trovare il momento giusto per chiamare. Vide che stava succedendo qualcosa dentro la serra. Sulla facciata interna dei vetri scorreva dell’acqua che rendeva impossibile vedere chi ci fosse dentro. Una giovane uscì, svoltò dietro l’angolo e sparì. Mentre Marian oltrepassava svelta la piccionaia, Myrtel Haug comparve sulla porta della serra. Si scurì in viso quando scorse Marian, si sfilò i guanti, uscì all’aperto e le chiese: «Avete scoperto qualcosa di nuovo?»
«Può darsi», mentì Marian. «Non credo che sia stato qualcuno arrivato in macchina. Credo che qualcuno la stesse aspettando. Qualcuno che era già qui».
Il viso di Myrtel Haug si fece ancora più scuro. «Ah sì, davvero?».
Arrivò all’improvviso. Elly Haug spuntò alle spalle della nonna. Era magra, con lunghi capelli lisci e degli occhi grigi un po’ freddi. Aveva un bel viso, coperto dal fard. Lo usavano tutte le ragazze al giorno d’oggi.
«Allora Elly è tornata a casa. Mi avevi detto che mi avresti chiamata non appena fosse arrivata». Marian lanciò un’occhiata a Myrtel.
«È arrivata adesso», rispose Myrtel Haug.
Elly Haug si rivolse a Marian guardandola negli occhi. «Le vacanze autunnali non sono ancora cominciate. Volevo solo fare un salto a casa prima, per venire a trovare la nonna».
Una goccia lucida pendeva dall’anellino che aveva al naso; indossava una giacca lavorata a maglia, dei grossi stivali in gomma e le gambe magre erano fasciate da jeans stretti scoloriti.
«Che ne dici se io e te andiamo a fare due passi per conto nostro?». Marian voleva restare a tu per tu con lei.
La giovane si voltò verso la nonna.
«Io e Oda andiamo a ripulire dai rami secchi la parte vicino a Kierschows gate», tagliò corto Myrtel Haug.
Marian pensò che fosse il suo modo per prendere le distanze dalla nipote e allungò il proprio biglietto da visita a Elly. «Qui trovi anche il mio indirizzo mail».
Elly prese il biglietto e lo infilò nella tasca della giacca di maglia. Marian notò in lei una certa insicurezza: forse perché non aveva avuto il tempo di mettersi d’accordo con la nonna sulle risposte? Era una questione che avrebbe dovuto approfondire.
Si incamminarono.
«Chi è Oda?».
Elly esitò. «Solo la proprietaria di uno degli orti, che l’anno scorso ha cominciato a dare una mano alla nonna. Lavora alla tipografia dietro la chiesa. È un po’ suonata, come dice la nonna».
«Vuoi dire un po’ ritardata?».
Elly si strinse nelle spalle. «Io non la conosco».
Elly Haug sembrava poco affabile, ma aveva solo bisogno di una scaldatina.
«È stato bello crescere in questi giardini?».
Marian scorse la schiena di un uomo dal berretto azzurro che si chinava in avanti e spariva nel punto in cui erano piantati gli alberi più grossi.
«Sì», rispose Elly. Non appena furono fuori dalla portata della nonna, si fece più loquace. «Ci sono i tassi qui dentro. E pensare che siamo nel mezzo della città, ma riescono a sopravvivere grazie al verde. Nel cimitero all’altro lato della strada quelli della forestale ne hanno catturati due con una trappola e li hanno uccisi. Io credo che dovrebbero lasciarli vivere».
Marian capì ben presto di avere a che fare con una giovane che non aveva avuto la vita facile, ma che era riuscita a cambiare ambiente trasferendosi a studiare a Trondheim.
«Ho molti amici lassù», spiegò Elly. «Condivido la casa con due di loro. L’infanzia per me è stata un periodo difficile. Mia madre morì e io non mi sentivo affatto tranquilla. A quanto pare il mio cervello ha rimosso quell’episodio. Quello di Thona. Lei non faceva che correre. Una cosa ricordo bene, che strappava le ali agli insetti. Non esattamente il giorno che è sparita, ma altre volte. Non era una bambina buona. Un giorno la nonna ci diede le barbabietole e le venne tutta la bocca violetta. Ricordo la palla con cui giocammo io e Thona. La nonna dice che io ero davvero brava a inventarmi dei giochi con i bastoncini e le piccole cose che riuscivo a trovare in giardino. Ma ricordo che Thona non mi piaceva un granché. Mi faceva paura, raccontava che lo spaventapasseri era vivo e storie del genere. Una volta fingemmo di essere delle farfalle, ma Thona era più un insetto che una farfalla. Ho risognato spesso quella scena, sognavo le sue ali».
Marian era stupita dalla sua loquacità e dal tono cadenzato con cui parlava. Giunsero a un punto in cui lo spazio si apriva e il terreno scendeva verso Uelands gate.
«Raccontami di tua nonna».
Elly si avvolse stretta nella giacca di maglia e si fermò. Un paio di capelli furono trascinati dal vento sul suo esile volto. «È stato piuttosto difficile. Mia madre prese un’overdose e io dovetti andare a vivere con la nonna paterna. La nonna non è cattiva, ma non riesce ad andare d’accordo con nessuno, tranne che con i piccioni». Elly Haug sorrise a labbra serrate. «Non raccontarle che te l’ho detto. La nonna non era neppure particolarmente attenta all’igiene. Trovavo granelli di sporco nel latte quando ero piccola. Quando abitavo con la mamma, avevo una stanza con la carta da parati rosa, con pallini bianchi e foglioline verdi. Tutte le bambine vorrebbero una camera simile. Dalla nonna dormivo nella stanza del sottotetto. E quando il mio lettino con le sbarre divenne troppo piccolo, lei lo segò e ci fece due spalliere per le sedie. Io avrei voluto conservarlo, nel caso avessi dei figli. Quando organizzavano delle feste a scuola e gli altri bambini portavano con sé i genitori, con me c’era solo la nonna. E ricordo bene che era del tutto fuori luogo».
Continuarono a camminare ed Elly proseguì il suo racconto: «Era sempre vestita male e molto nervosa. Non piaceva a nessuno e nessuno le rivolgeva la parola. Era tremendamente imbarazzante e io ero furiosa perché lei si mostrava così servile. E non era neppure in grado di vestirmi. Ero io a scegliere cosa indossare e tutte le sere mi metteva a letto tardi».
Si sedettero sulla panchina di ferro turchese ed Elly continuò: «Mangiavo tutto quello che volevo, un sacco di dolciumi. La nonna coltivava l’insalata nell’orto, ma spesso era sporca e mi finiva la terra in bocca. Non la lavava abbastanza bene. E quando metteva in tavola patate o carote, erano talmente stracotte da risultare acquose e immangiabili. Io pensavo di meritare di più e facevo la difficile, ma ora mi rendo conto di quanto la nonna abbia fatto per me. E poi doveva pensare anche a papà, che era un incubo di figlio. Anzi, è ancora un incubo di figlio, ma credo che oggi lei non abbia nessun rapporto con lui. Non ne parliamo mai. La nonna ha senz’altro avuto un uomo, e papà un padre a sua volta, ma non so chi fosse. È un po’ strano che non me ne abbia mai parlato, ma sono molti gli argomenti che con lei non posso affrontare».
Marian osservò Elly Haug e le fece la stessa domanda che aveva già fatto sia ad Annie che a sua nonna: «Mi chiedevo se per caso in tutti questi anni non ti sia mai capitato di ricordare un dettaglio, qualcosa di nuovo, che magari sul momento hai ritenuto irrilevante per le indagini».
«No», rispose rapida Elly, staccando uno stelo d’erba sottile.
«Ne sei proprio del tutto sicura?»
«Sì».
Passò una coppia anziana con una borsa con le ruote da cui spuntavano una vanga e un rotolo di sacchi della spazzatura neri. Accennarono un timido saluto con il capo.
«Quando è stata l’ultima volta che hai visto tuo padre?».
Elly si strinse nelle spalle. «Non ricordo. La nonna non lo fa entrare in casa. Non abbiamo rapporti con lui».
«Come mai? Era qui il giorno in cui sparì Thona. Tua nonna dice di no, ma molti dei proprietari degli orti dell’epoca hanno confermato che lui c’era. E infatti fu sospettato e tratto in arresto».
«La nonna mi protegge da lui. Ma io non ricordo. Avevo solo cinque anni».
«Tu e Thona avete giocato con quella palla. Una vecchia palla da dodgeball blu. Sopra ci sono le vostre impronte digitali. Dovrebbe essere nel magazzino dei reperti in questura, anche se ancora non l’ho trovata».
Elly annuì.
«Per chissà quale motivo mi misi in testa che fosse colpa mia se Thona era sparita. Ma io non c’entravo, non le avevo fatto niente».
Cominciava a fare freddo sulla panchina, perciò si alzarono e si avviarono a passi lenti verso lo spaventapasseri. Elly sorrise. «Guarda, la nonna gli ha messo addosso un impermeabile. Perché ieri sera è piovuto». Staccò una pagliuzza. «E sotto ha una camicia», le venne da ridere. «Mi fa ancora paura».
«Cosa ricordi di quel giorno?».
Elly la guardò negli occhi. «Ricordo che mi tappai le orecchie quando arrivò la polizia e che c’erano degli uccelli neri sugli alberi. Io ero seduta sul letto. I poliziotti si chinarono verso di me e mi fecero delle domande, ma io non riuscivo a rispondere. Mi sembrava di vedermeli fluttuare davanti agli occhi. Avevano i walkie-talkie e un cane. O forse due cani. Ricordo il rumore forte dei walkie-talkie che sfrigolavano. Ma al di là di tutto questo, due sono le cose che mi sono rimaste più impresse: la sensazione che quello fosse un giorno terribile e che ero davvero affranta, come non lo ero mai stata prima di allora. In seguito la nonna fece di tutto per me. Ricevetti in regalo una bambola. E anche un biciclettina, mi ricordo».
Marian le chiese all’improvviso: «Elly, saresti disposta a farti ipnotizzare? Per vedere se riesci a ricordare qualcosa?».