21

Marian risalì la rampa del parcheggio e attraversò la strada proprio mentre un autobus di passaggio rilasciava un grosso sbuffo di gas di scarico dal tubo di scappamento. Myrtel Haug aveva detto che non vedeva il figlio da un’eternità. Ovviamente non era vero, Marian e Tønnesen su questo erano d’accordo. Myrtel Haug era una cinica, la signora dei piccioni non si poteva certo definire una persona affabile. Tønnesen avrebbe fatto dei controlli sulla sorella, Marian sarebbe andata a cercare il figlio.

Aveva parlato con Elly Haug per telefono. La ragazza aveva un nuovo numero di cellulare. Marian le aveva proposto un appuntamento su FaceTime, ma lei aveva risposto che non ricordava granché e che, se la poliziotta voleva vederla, sarebbe stata a casa per le vacanze autunnali. Mancavano solo un paio di settimane e poi Marian sarebbe potuta andare a farle visita e a chiacchierare con lei.

Ma prima andò a fare visita al pensionato. Era situato nei pressi della stazione centrale, in Nygata. Era un edificio in muratura che pendeva leggermente da un lato, con la vernice scrostata. Nella cunetta lungo la strada c’era dell’immondizia. Marian provò a spingere la porta. Era chiusa, ma in quel preciso istante si aprì e ne uscì un uomo trasandato dai capelli lunghi, proprio il tipo che immaginava potesse vivere in un posto simile. Marian sgusciò dentro.

La tromba delle scale era buia e inospitale, con una lavagnetta piena di bigliettini nel punto in cui cominciavano i gradini. C’era un puzzo terribile. Quella era senz’ombra di dubbio l’ultima spiaggia per gente ormai arrivata al capolinea.

Da dietro una porta chiusa si udivano delle voci infuriate: «Ma che cazzo credi, mica mi freghi, sai», urlava un uomo.

Un altro gli rispose con voce altrettanto alta: «Porca puttana, vedrai che io…». Seguì una scena violenta, in cui venne rovesciato qualcosa, probabilmente dei mobili. Poi si fece silenzio. Marian salì le scale. Era cresciuta abituandosi a stare sempre con le antenne dritte, con un piede pronto alla fuga, nel caso in cui fosse successo qualcosa. E adesso provava quella stessa paura, sensazione che un’investigatrice non poteva certo permettersi.

«La porta laccata di nero», disse un’esile figura di donna indicando con il dito. «Lui vive lì». Marian rimase in ascolto per un attimo, poi sollevò la mano e bussò forte con le nocche. Nessuno venne ad aprire. Saggiò la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Il chiasso giù al pianterreno si era acquietato. Marian prese dalla tasca un bigliettino da visita e ci scrisse sopra un messaggio. “Contattami”. Poi infilò il biglietto sotto la porta e se ne andò. Era ovvio che Glenn Haug non si sarebbe mai fatto sentire, ma per lo meno adesso sapeva che lei lo stava cercando.

Una volta tornata nell’ufficio del seminterrato, si sedette in ginocchio davanti alle scatole di cartone. Per un attimo pensò a Birka, che l’aspettava nella torre. Doveva cercare di tornare a casa presto. Trascinò verso di sé un nuovo scatolone e lo aprì. In fondo, in mezzo a tutte le buste grigie piene di documenti, c’era una foto della palla. Dei bigliettini bianchi erano stati fissati con del nastro adesivo sulle impronte digitali. A: Thona Ormberg Johansen; B: Elly Haug. La palla era sporca e piena di macchie. Una sembrava lasciata da un materiale nero e viscoso, che però non era stato identificato. Magari poteva essere olio? O concime? O forse semplicemente terra? Doveva trovare quella palla e mandarla di nuovo ad analizzare, questa volta con il nuovo sistema. Poteva rivelarsi determinante.

Erano centinaia i foglietti numerati sugli scaffali del magazzino dei reperti indiziari. Possibile che la gente non riuscisse mai a rimettere le cose al loro posto? Quei numeri minuscoli sembravano illuminarsi sotto i suoi occhi. Le prove avrebbero dovuto essere collocate secondo il giusto ordine stabilito dal registro, ma non era così. C’era una quantità di roba inimmaginabile: vestiti, borse, lampade, guanti, mazze da baseball, scarpe, stivali. Ma niente armi. Le armi erano depositate in una stanza a parte. La palla non la trovò. Certo le prove potevano essere distrutte. Il problema era che non esistevano regole su quanto a lungo si dovessero conservare. Nuovi metodi potevano portare alla luce tracce che prima non erano state individuate. Cose che non erano state trovate su dei reperti indiziari quindici anni prima, oggi potevano essere rilevate.

Marian inserì nel campo di ricerca di Google l’anno 2001. Così, tanto per rientrare nel mood di quindici anni prima. I film con i migliori incassi di quell’anno erano stati Il favoloso mondo di Amélie, Crocodile Dundee 3 e 15 Minuti. Follia omicida a New York con Robert De Niro e Edward Burns. Nel 2001 lei aveva poco più di vent’anni. Thona ne aveva sei. Che sensazione scabrosa. Spense l’iPad e lo infilò in borsa.

Stava per uscire, quando Cato comparve sulla porta. «Allora, che mi dici dell’Australia?»

«In Australia ci andrà Tønnesen», rispose Marian. «Comincia a cercare i soldi per il biglietto».

«Sarà la Kripos ad accollarsi le spese», replicò Cato Isaksen.

In quello stesso istante gli squillò il telefono e uscì in corridoio per rispondere. Si girò dall’altra parte, ma Marian sentì comunque che parlava del ragazzo scomparso.

«Sì, ma non è un caso di omicidio», diceva. «La Sezione Omicidi non può fare niente per le persone sparite. Il caso è di competenza del gruppo di ricerca persone scomparse. No, non sono stato informato sui dettagli. Le impronte delle scarpe da ginnastica del ragazzo nella cantina di un palazzo di Gustav Bloms gate?».

Marian si infilò la giacca.

«E avete trovato il suo cellulare nella cantina?», continuò Cato. «Be’, ma allora forse è il caso che interveniamo anche noi. Sì, sì, ti richiamo tra poco». Terminò la conversazione, si voltò e guardò Marian. «Non smetterai mai di sorprendermi, Marian. Tu stavi origliando».

Lei rise. Era la prima risata dopo tanto tempo. «Sto andando a casa, Cato. Io e Tønnesen faremo un salto da Annie uno di questi giorni. A proposito di quel ragazzo, c’è qualche novità?»

«Accidenti, quanto sei curiosa. Concentrati sul caso Thona. Al momento sei assegnata all’unità per i cold case. Ma Dio solo sa quanto avremmo bisogno di qualcuno in più alla Omicidi». Era pallido. «Andreas Lindeberg è sparito da otto giorni ormai».

«Alla Omicidi gioco in casa».

Cato trasse un profondo sospiro. «Siamo troppo pochi, ma tu prima di tutto devi rimetterti in sesto, per il tuo bene».

«Lo so, ma tornerò. I dolori sono diminuiti. Non posso pensarci in continuazione. Sai come vanno certe cose».

«Negli ultimi sei mesi molti colleghi hanno lasciato la sezione, Marian. Sono stati assunti come dirigenti in organi speciali, tipo i servizi segreti, l’unità contro i crimini economici e ambientali e la Kripos. Roger non c’è più, e neppure Irmelin Quist. Emergenza profughi», sospirò. «Minacce terroristiche. E tutta questa merda. Sembra che ormai un piccolo omicidio non conti più niente. Roba da matti».

«Lo so. Cosa credi che sia successo a quel ragazzo?».

Cato la guardò negli occhi. «Lui e i suoi amici sono stati al London Pub fino a tarda notte la sera prima che sparisse, ma niente fa supporre che la scomparsa sia correlata a questo fatto. Dev’essere successo qualcosa nell’ingresso e nella cantina del palazzo dove vive».

Il caso della bambina scomparsa
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