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«Ma che cavolo dici? Quale chiave di riserva?». Sentì Birka abbaiare dietro di sé.

La vecchia signora sfoderò un piccolo sorriso. «L’ho avuta dal precedente proprietario dell’appartamento della torre, davo da mangiare al gatto. Vuoi entrare a bere una tazza di caffè?».

«Ma sei completamente matta, stupida vecchiaccia!? Hai dato la chiave di casa mia a uno squilibrato? Quando è successo?»

«Qualche settimana fa».

«Qualche settimana fa! Un estraneo si è introdotto in casa mia, cazzo. Ed è pure piromane. Che aspetto aveva?».

La donna si sfregò le mani magre, chinò il capo e poi sollevò lo sguardo su Marian. «Era un po’ strano, non ricordo altro».

«Ha acceso il fuoco nello spiazzo qui davanti. Ora mi toccherà far cambiare la serratura della porta. E tu d’ora in poi vedi di stare lontana dalle mie faccende. Ci siamo capite!?».

Negli occhi acquosi dell’anziana brillò il terrore.

Marian prese Birka per il guinzaglio e la trascinò con sé su per le scale. Allora quell’uomo aveva la chiave, poteva andare e venire a suo piacimento. La donna aveva detto che sembrava strano. Doveva essere Glenn Haug, che sicuramente non era morto, no. Ripensando al proprio passato, le venivano in mente altre persone che potevano odiarla? Qualche colpevole di un vecchio caso, un uomo condannato ingiustamente, qualcuno che aveva un motivo per cercare vendetta?

Benché in quel preciso istante quel posto le sembrasse il più pericoloso sulla faccia della Terra, Marian era sul punto di svenire dalla stanchezza e aveva bisogno di dormire. Vedeva ondeggiare tutto intorno a sé. Mangiò qualche fetta di pane e bevve un bel bicchiere di succo d’ananas, incastrò di nuovo la scopa nella maniglia della porta e telefonò a una ditta per la sostituzione della serratura. Sarebbero venuti il giorno seguente. L’allarme invece lo aveva già ordinato e sarebbe arrivato due giorni dopo. Aveva spiegato che non poteva aspettare tanto, che era una questione di vita o di morte, ma naturalmente non l’avevano creduta e avevano ribadito che prima non potevano. Poi diede da mangiare a Birka e praticamente svenne non appena toccò il divano.

Dormì fino alle cinque del pomeriggio. Alle otto spense la luce e trascinò una sedia del tavolo da pranzo alla finestra della cucina, da cui poteva vedere il giardino. La giacca che aveva trovato appesa allo steccato non c’era più. La moto dell’artista era sparita ormai da un pezzo, doveva essere parcheggiata in qualche posto al chiuso per l’inverno. Accostò la fronte al vetro, poggiò i gomiti sul davanzale e aspettò. Si era fatto completamente buio; alle dieci e quindici un uomo entrò dal cancello. Aveva un cappotto lungo e un berretto blu scuro calcato sulla fronte, il volto per metà coperto dalle ombre. Lo vide alla luce del lampione e si ritrasse dalla finestra. La mattina seguente si sarebbe procurata un’arma. Era lo stesso uomo che aveva già visto in precedenza, sia nel giardino che dietro alle auto parcheggiate. Il cuore le rimbombava cupo nel petto. Quando tornò a guardare fuori, era sparito. Che avrebbe fatto adesso? Non era forse lo stesso cappotto che aveva visto sullo spaventapasseri negli orti qualche tempo prima? Quell’uomo era Glenn Haug. Spalancò la finestra, si sporse e gridò più forte che poté: «So chi sei!».

*

Toralv Henningsen aveva lavorato all’ufficio materiali della polizia nel seminterrato della questura per ventun anni. Zoppicava, aveva una gamba notevolmente più corta dell’altra e portava sempre un vecchio cappotto grigio fuori moda. Lui e il collega giocavano insieme al Totocalcio da anni. A suo tempo il collega era stato un calciatore del Brann, la squadra di Bergen. Erano impegnati a compilare una schedina da consegnare per l’ora di pranzo, per questo Toralv Henningsen si irritò quando qualcuno suonò la campanella di metallo. Era la morettina con la cicatrice. Toralv prese la richiesta che gli posò davanti sul bancone e la passò rapidamente in esame.

«Marian Dahle, HK P30, sì». Diede un’occhiata al tesserino, andò nella stanza delle armi, prese una pistola di servizio, una torcia, una scatola con dei proiettili da 9 millimetri e una fondina e rispose il tutto in una piccola valigetta nera che posò sul bancone.

«Vuoi andare al poligono ad allenarti? Aspetta un attimo, devo controllare sulla lista che tu sia autorizzata nel sistema. Questi moduli non si usano più tanto».

«Sono stata per un po’ in malattia», si apprestò a spiegare Marian, senza batter ciglio. «Dovresti controllare la lista dello scorso anno. Il mio capo è Cato Isaksen, ma non ha ancora trovato il tempo di aggiornare la mia situazione, è impegnato con il caso di Joner e Schavenius».

«Una bella patata bollente quel caso».

Henningsen si voltò e fece capolino dal collega, che stava completando la schedina.

«Metti due croci sul Vålerenga». Poi tornò a rivolgersi a Marian: «Allora adesso te ne stai quaggiù, al piano sopra il nostro, da quel che vedo».

«Per avere un po’ di pace», si giustificò Marian.

«Qui è tutto un gran andirivieni da quando il ministro della Giustizia ha concesso un’autorizzazione generica per le armi. Dovresti firmare qui. Devi aver affrontato un caso bello scottante, da quel che vedo. Quella cicatrice…». Accennò con il capo all’ustione sul viso di Marian.

«Parecchio scottante, sì», ripose lei. Ringraziò, prese la valigetta e con un fugace sorriso si congedò.

Marian entrò nel proprio ufficio e nascose la valigetta dietro la porta. Edith Södergran aveva scritto in una poesia quello che lei pensava adesso: I miei amici hanno una falsa immagine di me. Io non sono mansueta. Non era altro che la copia di una richiesta dell’anno prima, riprodotta in maniera scrupolosa, tanto che Henningsen non aveva notato la correzione sulla data. Era firmata da Cato Isaksen e originariamente era datata all’anno prima e non per quello in corso. Ma Marian aveva sistemato tutto facilmente. Avere una fotocopiatrice doveva pur servire a qualcosa. Poteva rivelarsi utile quando uno meno se lo aspettava. Il giorno e il mese coincidevano: 5 ottobre, esattamente un anno prima, quando era andata a prendere un’altra arma, che tuttavia non era riuscita a salvarla dalla tragedia del forno crematorio.

Tornò a casa a mezzogiorno e riuscì ad arrivare prima dell’uomo della ditta per la sostituzione della serratura. Scorse tre formiche che camminavano lungo il bordo del bancone. Ne vide altre due vicino alla stufa e quattro alla finestra.

Posò tremante la valigetta sul tavolo da pranzo e la aprì. Si era fatta consegnare un’arma. Senza permesso. Afferrò la pistola maneggevole, riempì un caricatore con i proiettili e lo inserì. Poi tirò l’otturatore e così l’arma era carica. Ora poteva difendersi. La nausea la assalì all’improvviso, invadendole la gola. Arrivò in bagno appena in tempo, le ginocchia picchiarono sul pavimento mentre si accasciava sul water. Si svuotò più volte, in preda a un sudore freddo, e al dolore tipico delle persone deboli. Le tornò in mente quello che aveva detto l’insegnante di Thona: in realtà non si è mai al sicuro, nessuno lo è. Era come una vecchia storia cominciata tanto tempo prima e mai terminata. La cicatrice le doleva a tal punto da darle l’impressione che la pelle stesse per strapparsi. Prese tre pasticche e le ingoiò con dell’acqua. La bottiglia di gin era nella lavatrice. Da chi mai voleva nasconderla?

Arrivò l’installatore della ditta per le serrature e in appena mezz’ora la cambiò, consegnandole due nuove chiavi. «Ecco fatto», disse. «Ora hai una porta a prova di bomba. Stai attenta a non perdere le chiavi un’altra volta».

Lo ringraziò e filò dritta in bagno a bersi un sorso di liquore. Una volta aveva dimenticato una bottiglia nella lavatrice e ci aveva fatto il bucato. La bottiglia si era rotta e nella stanza si era diffuso uno strano odore, ma non era riuscita a fermare il programma e aveva dovuto buttare tutti i vestiti, che si erano riempiti di schegge. Restò immobile, percependo l’ambiente che la circondava: la casa era enorme e i muri sembravano non offrire nessuna protezione. Come si diventava ipnotizzatori? Affidandosi a una corrente interiore che dal sistema nervoso conduceva all’universo? C’era bisogno di imparare a pensare in maniera diversa, di voltare la schiena a tutte le certezze, cambiare la propria forma mentis e tirare fuori il lato oscuro? La parte più forte. Forse in buona sostanza si trattava di mutare il proprio modo di pensare e di percepire la realtà. E allora, se lo avesse voluto intensamente, sarebbe stata capace di influenzare gli altri? Se qualcuno le dava la caccia, avrebbe potuto fermarlo?

Si spogliò ed entrò nella doccia. Poi si mise dei vestiti puliti e bevve molta acqua. Dopodiché salì nella torre con la valigetta dell’arma mezza vuota, lasciandosi dietro la torcia, insieme alla scatola delle munizioni di scorta. Si inginocchiò, aprì l’armadio e tese l’orecchio verso la soffitta prima di deporvi la valigetta. C’erano delle cose dell’infanzia che avrebbe dovuto cercare di ricordare, cose che avrebbero potuto spiegarle perché stava accadendo tutto questo. Forse un giorno avrebbe scoperto una versione più felice della propria vita di bambina. Aveva dei vaghi ricordi tristi della vista dalla finestra della cucina del condominio in cui abitavano. Sedeva in ginocchio su una sedia e vedeva i bambini di sotto trasformarsi in amici. Ma ciò che più le era rimasto impresso erano le lunghe ore vuote. Sua madre le parlava solo se necessario, il che non accadeva spesso. Si lamentava di quanto costasse mantenerla. Lei sentiva gli altri bambini che giocavano fuori e voleva uscire. Adesso provava la stessa sensazione. Voleva che lui venisse. Il suo persecutore. Perché quando pensava a lui non avvertiva solo paura e distanza, ma quasi una certa affinità. Era una persona che voleva incontrarla. E lei era pronta. Perché ora aveva una nuova serratura, e un’arma.

*

Com’era ovvio, quella notte non accadde niente. Lui non si introdusse in casa, sicuramente lo aveva spaventato e fatto fuggire quando gli aveva urlato dalla finestra.

Attaccò la fondina alla cintura e vi infilò la pistola. Poi andò a cercare il maglione più largo che aveva, quello verde, e lo tirò fin giù sulle cosce. Dopodiché si sedette al tavolo da pranzo e scrisse una mail a Farhi Salman.

 

Da: Dahle@politiet.no

A: farhi.salman@kripos.no

 

Buonasera Farhi Salman,

sono di nuovo io. È possibile diramare un avviso di ricerca per Glenn Haug tramite i media? Non riesco a trovarlo e ho il forte sospetto che abbia qualcosa a che vedere con il caso Thona. Non ci sono novità al momento, ma per me è essenziale riuscire a rintracciarlo. Sono anche disponibile a un incontro, se lo riterrai opportuno.

Marian Dahle

 

Mangiò qualcosa, un pasto leggero, composto da frutta, uova e un cetriolo. Poi portò fuori Birka. Si sentiva più tranquilla ora che aveva un’arma e una serratura nuova alla porta. E si era anche sbarazzata di Tønne. Avrebbe dovuto essere contenta, ma non lo era. Aspettava i risultati delle analisi tecniche della macchia di fango oleosa sulla palla, ma la Scientifica aveva detto che ci sarebbe voluto un po’ di tempo. Marian non sapeva se avrebbe potuto resistere a lungo.

C’era silenzio adesso e sperava che sarebbe durato. Si recò al lavoro e rientrò in casa alle cinque. Alle undici andò a dormire, ma prima di spegnere la luce, controllò la casella della posta in entrata sull’iPhone. Finalmente era arrivata una risposta da Salman.

 

Da: farhi.salman@kripos.no

A: Dahle@politiet.no

 

Ciao.

Non possiamo far cercare una persona solo perché vuoi parlarci. Propongo di aspettare e di vedere se spunta fuori qualcosa di nuovo.

Saluti,

Farhi Salman

 

Una concisa risposta di rifiuto. C’era da aspettarselo. A questo punto aveva ormai ben chiaro come stavano le cose: si erano messi in combutta. E lei, tra l’altro, non era riuscita a scoprire niente di nuovo. Adesso era sola.

Il caso della bambina scomparsa
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