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Si fermarono a una stazione di servizio e comprarono degli snack e dei giornali. Poco prima Gustav Joner si era lasciato sfuggire un piatto per terra, come se sentisse che là fuori c’era qualcuno a osservarlo. Si era voltato verso la finestra, ma naturalmente non aveva visto altro che la propria immagine riflessa, dato che all’esterno era buio. Il suo appartamento aveva una posizione perfetta, nascosto com’era addosso a una scarpata rocciosa simile a una scogliera. Gli appartamenti dei portieri occupavano sempre la posizione peggiore nei condomini.
Proseguirono a tutta velocità, chini in avanti sulle moto rabbiose come vespe, con la pressione del vento sul corpo. Quelle motociclette di marca BMW R1150R erano il loro orgoglio. Avevano stilato una lista di uomini. Andreas li aveva condotti entrambi dentro una palude di un grigio plumbeo. Capitava che guardandosi negli occhi piombassero in uno stato di terrore profondo. Che sarebbe successo se li avessero presi? E se fossero finiti in prigione? Forse avrebbero dovuto lasciar andare Andreas? La polizia li avrebbe scovati? Certo che sì. Il fratello si era fatto vedere da Andreas senza casco né visiera. Era stata una sua scelta. Anche uccidere era stata una sua scelta e ormai non potevano più tornare indietro. Il cervello non poteva trovare pace, non prima che avessero raggiunto l’obiettivo. Un mese addietro Annie Ormberg Johansen aveva fatto una dichiarazione al tabloid «VG»: «Sono convinta che Thona sia stata violentata e uccisa. Anni fa la polizia aveva individuato un sospetto, ma non c’erano prove. Spero che ora riusciranno a trovarle».
Se la polizia non lo avesse acciuffato prima, lo avrebbero catturato loro: Glenn Haug doveva essere sottoposto a giudizio. La collera umana poteva essere letale, ne avevano discusso a lungo, così come avevano discusso di molte altre questioni. Per esempio del fatto che il dolore e la malvagità dovevano essere sanati con altrettanto dolore e malvagità. Sia la storia sia la psicologia insegnavano che solo le crudeltà erano in grado di porre fine ad altre crudeltà. Le azioni concrete smorzavano l’angoscia. Azioni concrete, come in guerra. Quella era infatti una guerra.
*
Andreas giunse sull’orlo di un dirupo, una specie di strapiombo e dovette tornare indietro e girare a sinistra per aggirarlo e poter proseguire in direzione della strada principale. La luna era sospesa nel cielo sopra di lui come una lanterna. Quel mondo non era reale. Camminò in tutte le direzioni, saltando ruscelli e attraversando radure, per poi ritrovarsi di nuovo circondato da grossi tronchi d’albero. Infine cadde. Allungò le mani sui grossi fili d’erba che aveva davanti. Sembravano imbottiti. L’umidità del suolo, assorbita attraverso i vestiti, lo faceva gelare.
Proseguì strisciando, si alzò in piedi e cadde in un ruscello, dove perse una scarpa, trascinata via dalla corrente. Una pietra appuntita gli si conficcò nella pianta del piede destro e quando prese a camminare gli lacerò la pelle. Le dita gli si contorcevano per il dolore ogni volta che dei sassolini o delle radici gli ferivano la pianta del piede.
Ripensò alla stanza della tortura. I dipinti appesi in quella camera erano troppo grandi. Gli ci era voluto solo qualche secondo per capire perché il trono era stato costruito in quel modo, a cosa servisse. Non era un marchingegno, era un trono, un oggetto che sarebbe potuto stare in una chiesa, e invece stava su una piattaforma di legno appositamente costruita. In mezzo alla seduta era stato fissato un oggetto di ferro arrotondato. Quando quel pazzo ce lo aveva spinto sopra, le interiora si erano lacerate. L’uomo l’aveva afferrato e trascinato nella stanza. Lui aveva tentato di opporsi, ma era stato tutto inutile, perché la porta era chiusa a chiave e la finestra sigillata. E aveva capito il perché di tutto questo: lui non era la vittima, ma il diavolo. Sapevano dove viveva, e sapevano cosa aveva fatto. Erano andati a prenderlo e lo avevano punito. Proprio come il diavolo punisce i suoi seguaci.
*
Gustav Joner sgombrò il tavolo del salotto dalle riviste e dai quotidiani, gettandoli sul pavimento, e prese un raccoglitore dalla libreria. Il buio era compatto fuori dalla finestra. All’improvviso ebbe come la sensazione di soffocare. Aveva cinquantasei anni e lavorava come portiere del condominio.
La cucina era piccola, il piano cottura aveva solo due piastre. Chi aveva solo due piastre al giorno d’oggi? Si sedette su una sedia ed ebbe la sensazione che le pareti giallo senape gli si rovesciassero addosso. Avrebbe dovuto ritinteggiare quella stanza, il colore era troppo forte. Sembrava vomito. Prese una bottiglia di whisky dal mobile e ne bevve un sorso. Il silenzio era totale dentro casa e l’aria fresca, tipica dell’autunno. Aveva spento la musica, perché quelli dell’appartamento di sopra si erano lamentati con l’amministratore già un paio di volte. I loro figlioletti del cazzo dovevano dormire.
Si passò una mano sopra il braccio nerboruto. La polizia ormai non si faceva sentire da tre mesi. Non era stato interrogato, aveva solo ricevuto quella che chiamavano “una notifica”, il che voleva dire che non erano riusciti a trovare prove per incastrarlo. Era la sua parola contro la loro. Il ragazzino era stato chiamato per fornire delle spiegazioni. Forse avrebbe conosciuto il risultato solo nel caso in cui l’avessero convocato per un processo. Ma si trattava sempre della sua parola contro la loro. Di fronte a sé vedeva l’appartamento dove il ragazzino viveva adesso, nel condominio A. Gustav Joner invece alloggiava nel blocco B da otto anni. Se fosse stato dimostrato che aveva fatto qualcosa al bambino, se avessero creduto al ragazzino, lui avrebbe perso il lavoro. Ormai quasi tutte le finestre erano buie, anche quella del ragazzo. Gustav Joner si alzò in piedi e tornò in salotto. L’immagine del bambino gli guizzò davanti agli occhi: il volto magro e i capelli con la gomma da masticare appiccicata accanto all’orecchio. Lo aveva adescato con la storia di una gatta che aveva fatto dei micini in cantina e il bambino lo aveva seguito, ma lui non era certo così stupido da fargli qualcosa subito. Aveva sentito l’alito del ragazzo come una dolce brezza contro il braccio nudo. Poi aveva finto che i gattini si fossero infilati in uno dei ripostigli della cantina e il bambino aveva giurato di mantenere il segreto e di tornare il giorno successivo dopo la scuola.
Quando era arrivato, lui lo stava aspettando dietro la porta. Gli aveva lasciato percorrere qualche metro, prima di spegnere la luce. Il ragazzino si era messo a urlare. Lui lo aveva raggiunto, lo aveva afferrato e gli aveva messo una mano davanti alla bocca. Era da tempo che fantasticava su quella situazione. Non era riuscito a combinare granché, e così lo aveva lasciato andare e si era allontanato per mettersi al sicuro. Non aveva neppure idea di come si chiamasse, fino a quando i genitori non si erano presentati alla sua porta accusandolo di aver molestato Sebastian. Lui aveva risposto che quel giorno c’era in giro un uomo che stava facendo delle riparazioni. E c’era davvero, non era mica tanto stupido da inventarselo. Un idraulico polacco era stato a sistemare qualcosa nell’interno di fianco. Quel mocciosetto del cazzo, però, insisteva a dire che era stato lui, il portiere, perciò si trattava della sua parola contro quella del bambino. Lanciò un’occhiata al termometro alla finestra, che segnava sette gradi. Spense la luce e accese il televisore.