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Marian mise la legna nella stufa e la accese. Parlare con Cato l’aveva scombussolata. Aveva preparato il fuoco nella stufa rotonda addossata alla parete, accanto alla scala in acciaio che portava al piano di sopra, alla camera da letto dentro la torre. Era una stufa alta, dentellata sulla cima, come se fosse nientemeno che la regina lì dentro. La sensibilità e il senso dell’olfatto si erano acuiti dopo l’incidente nel forno crematorio. Non le piacevano le fiamme vive, non accendeva più neppure le candele. Tutto considerato avrebbe dovuto vivere in una casa in muratura e non in una delle più vecchie case in legno di Oslo, ma aveva comprato quell’appartamento per sfuggire al passato e lì aveva ricominciato la propria vita da zero.
Della bambina di sei anni scomparsa nel 2001 avevano sentito parlare tutti, ovviamente. Le sembrava quasi di vedersela davanti, con i capelli chiarissimi e gli occhi azzurri. La sua foto era circolata su tutti i media negli anni successivi alla sparizione, tanto che aveva quasi l’impressione di conoscerla. Se non ricordava male, giocava con una bambina della sua stessa età in un grande giardino.
Il calore delle fiamme le dava la sensazione di punture sulla mano. In un baleno le tornarono alla mente tutti i dettagli dell’incidente nella fornace: il ronzio della ventola, il calore che le copriva il viso come un tappeto soffocante, le volute di fumo nerastro che si avvolgevano in spirali sopra di lei; il senso dell’udito annientato e i polmoni che si riempivano di fumo rovente, prima che tutto scomparisse in una luce bianca.
Richiuse lo sportello della stufa e sollevò lo sguardo verso la camera da letto, verso il tetto alto di quella torre che sembrava quasi il campanile di una chiesa. I ripidi gradini in acciaio che portavano di sopra sembravano più una scala a pioli che non una vera e propria scalinata.
L’appartamento era quasi del tutto privo di pareti divisorie interne, c’erano solo una grande stanza con un delizioso angolo cottura in quercia, un bagno rimodernato e l’ingresso. Il grosso tavolo da pranzo sbilenco l’aveva seguita nel trasloco, ma il divano era nuovo, beige e soffice. Ai muri erano appesi un paio di poster dai colori chiari.
Prese una confezione di uova dal frigorifero piuttosto spoglio. Avrebbe dovuto optare per un’alimentazione più varia. E le uova in realtà non sarebbero dovute stare in frigo.
Guardò fuori dalla finestra all’estremità del bancone della cucina, nel giardino buio. Le assi del pavimento erano fredde sulle piante dei piedi. Dall’appartamento vicino giungevano della musica e delle voci: l’artista aveva di nuovo delle visite. Era una persona socievole, qualche volta se ne stava sulla veranda a fischiettare. Marian non voleva conoscerlo e neppure voleva conoscere la vecchia signora del pianterreno.
Si preparò una frittata. Cato non capiva quanto fosse penosa la sua condizione. Aveva riposato molto e letto parecchi libri. Tutto andava bene, finché non si trovava ad avere a che fare con la gente. Infatti, come aveva scritto Janet Frame: «Su tutte le porte che comunicano con il mondo esterno hanno affisso avvisi ed elenchi di misure di sicurezza da prendere in caso di emergenza estrema». E questa era la sensazione che aveva lei stessa, una sensazione dolorosa. Senza tanti giri di parole, Cato le aveva chiesto se bevesse ancora. Lei aveva risposto di no, ma era ovvio che beveva. Contro il dolore fisico prendeva il Vicodin, benché fosse rischioso assuefarsi all’assenza di dolore. Conosceva il nome di quasi tutti i farmaci della categoria, ma l’alcol restava sempre il suo miglior alleato e ora aveva rinsaldato quell’amicizia, con la scusa di dover sfuggire alle orribili cose che le erano capitate e che doveva trovare il modo di superare. Sarebbe stata la protagonista perfetta di un thriller dozzinale: detective alcolizzata, fallita e per giunta donna. Nei romanzi gialli i detective non avevano mai, o quasi mai, una famiglia, o per lo meno non avevano figli. I bambini erano povere creature fragili, troppo bisognose di protezione. Forse però era stato stupido rifiutare l’offerta del cold case. E se avesse perso l’incarico?
*
C’era un altro uomo fuori, nel corridoio dello scantinato. Poteva essere un buon segno, o forse no. Era basso e magro. Indossava una tuta in pelle come quella dell’altro, ma non il casco. Era sulla cinquantina, moro e con i capelli radi, la fronte stempiata e un viso appuntito con occhi infossati dalle ciglia scure.
«Cosa volete da me?». Andreas non riconosceva la propria voce. «Dov’è l’altro?».
L’uomo non rispose, si limitò a sollevare la mano puntandogli contro una pistola. Era vera? Così sembrava. Quell’uomo somigliava a Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti. I muscoli della mascella erano tesi, la pelle intorno al naso tirata. “Rabbia”, pensò Andreas.
L’uomo indietreggiò di un passo e tutto a un tratto, con l’altra mano, gli puntò contro una bomboletta spray. Schiuse le labbra in una specie di sogghigno, lasciando intravedere una fila di denti minuscoli. Premette lo spray e Andreas si portò d’istinto le mani alla bocca. Quella sostanza aveva l’odore di un prodotto chimico. Dalle labbra gli sfuggì un piccolo singhiozzo, poi fu assalito dalla nausea e la testa cominciò a girare. Capì subito di cosa si trattava. Ebbe la sensazione di cadere: era gas, come quello che usavano in Spagna per disinfettare le case per le vacanze e i camper lungo le strade. Il cervello fu assalito da una specie di fischio intenso e per un attimo la vista gli si oscurò, ma rimase in piedi.
Il motociclista rimise la bomboletta nella tasca della tuta in pelle e posò l’arma a terra, poi dall’altra tasca estrasse un rotolo di nastro adesivo telato. Andreas barcollava ed era totalmente privo di ogni forza di volontà. L’uomo gli portò entrambe le mani dietro la schiena e avvolse rapido il nastro intorno ai polsi. Dopodiché glielo appiccicò sulla bocca e sul mento, facendolo girare dietro la nuca fino a tirargli le radici dei capelli. Raccolse la pistola. «Cammina!», ordinò indicando il corridoio.
C’era una porta aperta, da cui entrava aria fresca. Una ripida scala conduceva al cortile oltre lo steccato. Andreas inciampò subito e cadde su uno dei gradini, andando a sbattere contro lo spigolo con la gola e ferendosi proprio sul pomo d’Adamo. Per un attimo gli si appannò la vista e sentì il sangue scorrere nella faringe.
*
Il bagno era nuovo, appena rimodernato, con piastrelle a mosaico marroni e beige. Dalla finestrella la vista cadeva direttamente sulle travi esterne, ornate da incisioni che le facevano somigliare a dei merletti. La luce proveniente dall’interno metteva in risalto le decorazioni del legno.
Si lavò i denti, inghiottì due antidolorifici con un goccio di gin dalla bottiglia del mobiletto del bagno e poi si spogliò. Sollevare le braccia per sfilare la maglia era doloroso, le cicatrici lasciate dall’incendio tiravano e facevano male. Sarebbe stato così per sempre. Sarebbe stata una povera disgraziata che si avviava a diventare invalida. Con gesti bruschi, gettò un paio di indumenti nella lavatrice, ma non la avviò. Se la sua salvezza era lavoricchiare a qualche stupido caso irrisolto, forse doveva farlo. Semmai il mal di testa e i dolori fossero aumentati, poteva sempre buttar giù qualche antidolorifico.
Marian batté la mano sulla coscia per invitare Birka a salire la scala in acciaio che portava alla stanza della torre. Nel muro della camera da letto c’era un armadio basso e allungato, come costruito nello spazio tra il pavimento e il tetto a spiovente, nel punto in cui cominciava la torre. Lì dentro Marian teneva i vestiti e qualche scatola di cartone con lenzuola colorate. E la vecchia fotocopiatrice che le era stata regalata da una segretaria della Sezione Omicidi. Originariamente l’armadio doveva essere stato un passaggio che conduceva nella soffitta, ma ora il pannello posteriore era ben inchiodato al muro. Tuttavia non le piaceva affatto l’idea che la sua camera avesse un’entrata collegata con l’esterno.
Il letto era largo un metro e mezzo. Aiutò il boxer a salirci sopra. C’era gente che trovava repellente condividere il proprio letto con gli animali. Potevano portarsi dietro pietrisco, fango, sabbia o insetti, ma Marian non ci faceva caso più di tanto e la presenza del cane la tranquillizzava. Spesso, durante la notte, piagnucolava come se avesse dei dolori. Era perché stava sognando e Marian doveva colpirla con il piede per svegliarla. Si scopriva sempre più spesso a chiamarla “il cane”. Time to Say Goodbye. Poco prima avevano messo quel brano su radio P4 e Marian aveva provato un malessere così intenso da sentir gocciolare il sudore sulla nuca.