71

L’ipnotizzatore aveva la sua sede in un vecchio palazzo malconcio. L’acqua che cadeva da una grondaia si era congelata, andando a formare una striscia di ghiaccio che attraversava il marciapiede in tutta la sua larghezza.

Elly era seria e silenziosa. Marian si sentiva la coscienza sporca per aver spinto la ragazza ad affrontare quella prova, ma ormai era tardi per recriminare.

Shai Timo era un ometto piccolo e bonario. Spuntò da dietro una tenda su cui erano stampati alberi di ciliegio con meravigliosi fiori rosso chiaro. Aveva la fronte bassa, il naso largo un po’ appiattito e grosse labbra carnose. Piccole gocce di sudore gli imperlavano l’attaccatura scura dei capelli e la tunica arancione la indossava anche nella realtà, non solo nella foto su internet. Gli arrivava fino alle ginocchia e sotto portava dei jeans e sandali senza calzini. Non porse loro la mano, ma le salutò con un leggero inchino del capo e indicò il divano nella saletta d’attesa.

Era un divano giallo enorme, con cuscini gialli e azzurri. Sul pavimento era stesa una stuoia dai colori sgargianti. Il tutto acquistato con ogni probabilità in qualche mercatino dell’usato, per ricreare l’impressione di un luogo esotico. Elly diede a Marian la propria giacca grigia. In quel posto sembrava a disagio, ma quando Shai Timo le posò la mano sul braccio e la condusse dietro alla tenda, lei lo seguì. Marian aspettò un attimo, ma poi non riuscì a resistere alla tentazione di origliare. Dietro la tenda, però, si celava una porta imbottita, da cui non fuoriusciva neppure un rumore. Marian si lasciò ricadere sul divano. La poltiglia di neve sul marciapiede aveva inzuppato gli stivali di pelliccia. Sarebbe stata la prossima cosa da fare, comprarsi un paio di buone scarpe invernali.

*

Dalla radio giungeva una solenne aria di musica classica. Il fratello era in cucina, furioso per la faccenda di Glenn Haug. Se ne stava zitto, quando era arrabbiato. Haug avrebbe dovuto essere un modus operandi, qualcosa che deviasse dagli altri tre. Ne avevano bisogno. Il coltello Wayne Barton era posato sul bancone della cucina. Il fratello era diventato psicologo per tenere lontano il dolore, lo diceva lui stesso. Era solito istruirla su come trasferire lo sguardo lontano da se stessa, verso un punto indefinito. Ne parlava spesso, specie mentre teneva in mano il coltello ed eseguiva gli intagli nel legno. Era bravo a dar forma agli oggetti, tutto quello che creava era bello. Ai mercatini di Natale del circolo di Varåa vendeva parecchio.

Frank posò il Wayne Barton sul bancone della cucina e poi uscì dalla stanza. Margrethe vide il coltello. Era così che il fratello la puniva, muto, il volto impassibile. Non le faceva mai del male; era lei che si faceva del male da sola, tagliandosi sulle braccia. Col tempo poi le cicatrici diventavano bianche, come marchi sul corpo. All’inizio, però, le ferite erano aperte e sanguinanti. Le venne da pensare ai corpi di quegli uomini, alle lesioni gonfie e scure sulla pelle, agli orifizi dilaniati e al sangue che scorreva a fiumi. Era colpa sua se Glenn Haug era sfuggito. Lei non era stata violentata. Non era lei quella che meritava compassione.

*

Elly rimase dentro con l’ipnotizzatore per cinquanta minuti. Quando uscì, seguita da Shai Timo, sembrava stanca. Marian pagò 800 corone in contanti.

«Ora lascia che il trattamento agisca, senza opporre resistenza, con serenità». Posò le mani con i soldi sull’addome, si profuse in un inchino e abbassò brevemente il capo.

Elly riprese la sua giacca grigia e insieme uscirono sul marciapiede coperto dalla neve mezza sciolta e infangata.

«Ti accompagno a casa, Elly. Sei tutta bianca in viso. Com’è andata?»

«Torno a casa da sola. Non ha fatto poi molto, mi ha solo raccontato delle cose su di me, come se potesse leggermi dentro. Non so cosa sia successo quando Thona sparì, mi appare tutto verde. La luce era verde, tutta la stanza era verde e sottili raggi di sole penetravano dalla porta aperta. La porta esterna infatti era aperta». Le si incrinò la voce. «Non ho ammazzato nessuno. Non è stata colpa mia. Davvero certe tecniche sono permesse? Davvero usate questo metodo nella polizia?».

Marian tacque per un istante, poi mentì: «È un metodo discusso».

«La polizia paga in nero? Non credo proprio. Questa è una tua trovata. E ora voglio che mi lasci in pace».

«Va bene, ti lascerò in pace, Elly».

*

Il giovedì passò senza che Marian avesse notizie di Elly. Quando le inviò un messaggio per chiederle il permesso di telefonarle, lei non rispose. Marian pensò: è spaventata a morte, la nonna le ha fatto il lavaggio del cervello ed è arrabbiata con me perché adesso ricorda qualcosa; speriamo solo che non chiami Cato e non gli racconti di Shai Timo.

Poco prima del telegiornale delle diciannove, Marian andò a prendere la macchina e guidò fino a Nordberg. Quei pochi gradi in più che avevano riscaldato Oslo quella mattina avevano fatto sciogliere la neve d’ottobre, di cui adesso non restava che qualche chiazza sparsa qua e là. Prima di pranzo Marian si era comprata un bel paio di stivali militari neri foderati all’interno. Per lo meno la tenevano all’asciutto.

Sapeva dove abitava Tønnesen, in una villetta rossa quadrata in stile anni Sessanta. Lo aveva accompagnato a casa in un paio di occasioni. Era sempre più sicura che Elly fosse la chiave per la verità. Ricordava il modo in cui aveva straparlato la prima volta che si erano viste negli orti. Da muta e introversa, si era fatta loquace, fornendo osservazioni e analisi nette e riferendo immagini forti che le si erano impresse nell’animo. Infine era diventata ostile e scontrosa, dopo la seduta dall’ipnotizzatore. Marian non voleva raccontare di lui a Tønnesen, perché non era Tønnesen a dover risolvere il caso Thona. Lo psichiatra stava lavorando a cose più importanti, cercava di scovare un serial killer. Lei però voleva risolverlo, il caso Thona.

Quando Tønnesen aprì la porta, il suo stupore fu evidente, ma la invitò comunque a entrare. La moglie era uscita, disse. La casa era come Marian l’aveva immaginata: mobili in legno, riviste di escursionismo su un tavolino, strisce centrotavola tessute a mano, candele e qualche troll come soprammobile; alle pareti foto di famiglia, di fiordi e montagne. La vista su Oslo era spettacolare, un mare di luce scintillava dalla città che si stendeva ai loro piedi. Il fiordo di Oslo. «The fjord», come dicevano i turisti. Alcuni restavano delusi perché non vedevano picchi acuminati, ma per quello ci si doveva spingere molto più a ovest, o a nord.

«Come si fa il lavaggio del cervello a una bambina?», gli chiese Marian sorridendo. Perché le era venuto da sorridere? Non era naturale sorridere in quella situazione.

Tønnesen la osservò mentre si grattava il petto attraverso la camicia di flanella.

«Siediti, Marian. Credi che Elly sappia più di quello che vuole dirci?».

Marian si sedette e rifiutò gentilmente il caffè che Tønnesen le offriva. «Credo che sappia qualcosa. È come se ci fosse un intoppo nella sua personalità. È qualcosa che ha a che fare con il suo modo di essere. L’insegnante di scuola materna di Thona ha fatto un’osservazione intelligente: i bambini non hanno solo braccia, gambe, un cuore e dei reni; possiedono anche un intelletto e una psiche, intuito, astuzia, capacità di preoccuparsi degli altri e una dose di cattiveria».

«È vero», confermò Tønnesen.

«È risaputo che il cervello è in grado di rimuovere i ricordi e Myrtel Haug è una donna tosta. Tu hai parlato di tendenza a punire…».

«Sì?»

«Per esempio nei confronti di una bambina. Credo che ci sia qualcosa che Elly non ha il coraggio di dire. Ricordo che ha parlato di persecuzioni. Glenn Haug mi ha dato la caccia».

«In che modo?».

Marian voltò il viso altrove. «In vari modi. A quanto pare si è messo in testa che con me fuorigioco potrebbe farla franca. È psicotico. È un pazzo. Schizofrenico, come la madre». Ripensò a quello che lo psicologo di Annie aveva detto sull’onnipotenza. Era proprio così.

Tønnesen si portò sul bordo della sedia. «Ok. Secondo me è stato Glenn Haug a portare via Thona tanti anni fa ed è probabile che Myrtel lo sappia».

«E forse lo sa anche Elly».

«I bambini sono soggetti facili da manipolare, se si segue un metodo».

«È quello che ho letto, che esiste un metodo».

«A cosa ti riferisci?»

«Sicuramente lo conosci, è di origine cinese». Marian proseguì senza attendere una risposta: «Veniva usato durante il comunismo; era un sistema di costrizione per indurre cambiamenti in quelli che venivano definiti uomini feudali».

Tønnesen annuì. «Si trattava di un lavaggio del cervello, che così poteva essere riprogrammato da zero».

«Credo che sia proprio questo quello che è successo». Ascoltandosi pronunciare quelle parole, ebbe l’impressione che fossero ancora più vere.

Il caso della bambina scomparsa
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