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Era venerdì 2 settembre. Il secondo giorno sembrava più facile, ma Marian non riusciva a stare in ufficio con la porta chiusa perché le dava un senso di claustrofobia. La porta quindi era aperta e quando passava qualcuno lei abbassava la testa, non poteva certo salutare tutti. Allontanò la fotocopiatrice, spingendola in un angolo, accanto ai mucchi di scatole che non avevano niente a che fare con il caso. Poi lesse degli uomini che all’epoca erano stati portati in questura per essere interrogati. Aveva incontrato parecchi assassini nel corso della propria carriera, molti dei quali composti e ben educati. Di solito si difendevano dalla propria personalità attraverso meccanismi psicologici di negazione e assumendo un contegno particolare. Dentro di lei sorse una strana sensazione: sentiva la loro mancanza. Un paio di ex colleghi le fecero visita nel nuovo ufficio. La caposezione Ingeborg Myklebust fece capolino per dirle che si aspettava grandi cose dalle sue indagini su quel vecchio caso irrisolto. Marian sorrise e chiacchierarono del più e del meno. Poi per fortuna se ne andò.
La Myklebust le aveva fatto visita anche all’ospedale di Sunnaas. Era nota per come riusciva a ridurre i propri sottoposti a dei relitti umani con i nervi a fior di pelle. C’era da farsi venire il voltastomaco. Marian sentì di essere già sfinita, perciò intorno alle undici dovette fare una pausa. Purtroppo non era il tipo di stanchezza che si poteva combattere con il sonno. Salì di sopra in ascensore e lasciò correre Birka nello spiazzo per cani del cortile della questura. Correre tuttavia era una parola grossa, perché Birka ormai non correva più, piuttosto trotterellava a gambe larghe e annusava qua e là. Erano così simili, lei e Birka. Una striscia di sole arancione si insinuò tra due edifici, andando a colorare l’erba verde dietro alla questura. Marian si infilò nelle orecchie le cuffie dell’iPod e ascoltò Melody Gardot, che con voce esile cantava Your Heart Is Black As Night.
Più tardi Cato fece in modo che qualcuno la accompagnasse al deposito dei reperti indiziari del livello K2. C’erano scaffali enormi, dotati di ruote che andavano fatte girare per spostarli e creare delle aperture tra uno scaffale e l’altro. Il ventilatore a pale del soffitto era coperto da uno strato di polvere. Lo accese; quel ronzio leggero aveva un effetto calmante.
Il caso Thona era stato trattato come un rapimento: qualcuno doveva averla portata via. Sulla palla con cui avevano giocato le due bambine c’era il DNA di entrambe, ma niente di più. Su di essa non erano state individuate altre impronte digitali, ma Cato aveva detto che adesso potevano avvalersi di un nuovo metodo.
Cercò per mezz’ora, seguendo la numerazione degli scaffali e dei documenti, ma, non avendo trovato la palla, abbandonò il deposito.
Quindici anni erano lunghi, la palla poteva essere stata spostata. Avrebbe proseguito le ricerche il giorno dopo. Tornata in ufficio, cercò su internet la ventenne Elly Haug. Aveva un aspetto dolce nella foto di Facebook. Una ragazza magra, con lunghi capelli castani, occhi grigi e un anellino al naso. Studiava a Trondheim e tra i suoi cantanti preferiti figuravano la norvegese Sissy Wish e i Foo Fighters. I suoi scrittori prediletti erano Ernest Hemingway e Sylvia Plath e sotto la dicitura altro aveva indicato l’Associazione per il turismo norvegese, la missione diocesana e un centro di fisioterapia.
*
Rex era il cane del fratello. Tolse le zampe dalla portiera del furgone. Era liberatorio poter riposare chinando la nuca all’indietro sul poggiatesta e starsene semplicemente seduti lì, in macchina. Nel bosco, con il cane, il fratello si comportava come uno zoologo che dovesse testarne i livelli di resistenza. Adesso aveva messo Andreas Lindeberg sul trono e le urla si sentivano persino da lì, nell’officina; ululati rauchi, come di un cane in preda al dolore. Era la scena perfetta di un film dell’orrore. Il fratello diceva che sarebbe servito a sciogliere il sistema nervoso, l’intrico di alghe che fluttuava sull’anima. La sua lezione sull’onnipotenza e la forza era cruenta: noi che siamo forti abbiamo il dovere di fare qualcosa. E lo faremo. Tuttavia la nozione di onnipotenza non era di per sé realistica, implicava una fiducia smisurata nelle proprie forze, un potere totale. Ma il potere totale era una prerogativa di Dio. Gli occhiali da lettura scivolarono e caddero sulla Bibbia aperta posata sullo sterzo. Le mani del padre erano appena più grandi di quei pugni. Rex si era messo ad abbaiare. Dietro al senso di vuoto si celava un altro sentimento, profondo, al limite dell’angoscia.
Avevano in comune l’interesse per le motociclette. Ma i pensieri di vendetta, presenti da sempre nelle loro vite, li covava unicamente il fratello. Il fratello non era più alto di uno e settantacinque senza scarpe. Aveva smesso di crescere a quindici anni, dopo l’operazione, come se tutta la sua vita si fosse fermata lì, nella sala operatoria. Se l’erano cavata bene tutti e due, avevano studiato ed erano abili e intelligenti. Sapevano molte cose sulla personalità individuale; verso i trent’anni diventava rigida come il gesso e solo molto raramente tornava elastica. Non era poi così strano che spesso la gente diventasse qualcosa di diverso da ciò che desiderava. La madre osservava l’officina, seduta accanto al vetro. L’espressione del viso era quella di sempre, non si lasciava turbare dalle urla, doveva essere convinta che fosse la radio. Era così anche negli anni Settanta; sedeva spesso davanti alla televisione, anche se preferiva la radio. Ed era un’assidua frequentatrice della chiesa. Ora il cane stava su due zampe e guardava dentro dal finestrino del furgone. Ovviamente avere paura di Rex era stupido, ma quel cane era imprevedibile. E il ragazzo sul trono? Ormai era troppo tardi per tornare indietro.
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Cato comparve all’improvviso sulla soglia con una sedia in mano.
«Per Tønnesen», disse. Aveva gli occhiali da lettura calati sul naso. «Immagino che farete diverse riunioni qua sotto».
Birka si alzò scodinzolando e spostando lo sguardo dall’uno all’altra. “Da chi devo andare?”. Cato posò la sedia e si chinò.
Marian infilò la foto di Thona Ormberg Johansen sotto la tastiera e batté la mano sulla coscia. «Vieni qui, Birka». Il cane cominciò a mugolare.
Cato sistemò la sedia. «Come va?»
«Non saprei, a essere sincera mi sento scombussolata, come se fossi appena uscita dal letargo».
Cato accennò una specie di sorriso e risistemò al proprio posto gli occhiali. «Come un orsacchiotto. Per lo meno nessuno si irriterà più perché porti il cane con te al lavoro».
Marian ricambiò il sorriso, un sorriso forzato, che si estese fino alla cicatrice. «Il mio cane è una bestiola traditrice. Ma non c’è bisogno che tu scenda da me di continuo, Cato».
«Di continuo? Sono solo venuto a portarti una sedia».
«Forse potrei riuscire a lavorare, se la gente mi lasciasse un po’ in pace».
«E la gente sarei io?». Le sorrise da sopra gli occhiali, se li tolse e li batté sul palmo della mano. «Ti ho fatto fare un tesserino per l’ingresso al magazzino dei reperti indiziari. Così non avrai bisogno di qualcuno che ti accompagni di continuo».
«Oh, grazie». Un punto per lui. Sapeva che non doveva essere stato tanto facile procurarselo.
«So come lavori. Tra l’altro mi sono dimenticato di dirti che forse dovrai andare in Australia, a Melbourne. Il padre della bambina viveva laggiù quando lei è scomparsa e ci vive tuttora. Non ci abbiamo mai parlato di persona».
«Io in Australia non ci vado», rispose Marian.
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Certo era strano che la polizia non fosse andata dal padre. Il papà di Thona era stato assente sin da quando lei era piccola, secondo quanto riportato nei documenti. Era un tipo manesco, queste le parole della madre. Non c’erano mai state denunce, ma era evidente che l’odio tra i genitori doveva essere forte. La madre lo descriveva come un uomo che maltrattava le donne e uno psicopatico. Ma certe persone usavano il termine “psicopatico” con troppa leggerezza. Marian aveva letto da poco una biografia che parlava di padri assenti. Come nella storia di Oliver Twist, come per Qui, Quo e Qua di Walt Disney. Come nelle favole di Pollicino e Cappuccetto Rosso. Per non parlare poi del padre di Pippi Calzelunghe, re di un’isola remota. Un padre era una figura che doveva vegliare sui figli e proteggerli. Ruolo che evidentemente John Johansen non aveva mai ricoperto per la piccola Thona.
Contattò la previdenza sociale e venne a sapere che Glenn Haug non era coperto da un’assicurazione. L’impiegata le fornì i numeri di cellulare, specificando che erano due dei suoi numeri. A quanto pare ne aveva altri. In quei primi giorni Marian avrebbe dovuto cercare di fare un salto al pensionato in cui alloggiava. Ma prima si doveva occupare di Annie Ormberg Johansen.
Lovisenberg era una clinica specializzata in psichiatria e medicina interna. Annie Ormberg Johansen lavorava nel Reparto d’emergenza psichiatrica. Forse prima di andare dalla madre della bambina e agli orti comunali, avrebbe dovuto parlare con Tønnesen, ma l’idea di farlo subito era troppo allettante. Non era neanche sicura che l’avrebbe trovata in ospedale, ma da qualche parte doveva pur cominciare. Cercò il suo numero di cellulare su internet ed ebbe la conferma che era al lavoro.
Spense il computer, prese il cane e uscì con l’auto dal parcheggio. Per strada si fermò in Alexander Kiellands plass e comprò una nuova bottiglia di gin e un cartone di vino bianco al monopolio degli alcolici. Prese anche un filoncino di pane e un pacchetto di fette di salame nel supermercato di fianco. Poi si rimise in macchina e rientrò nel traffico. Si capiva dal nome che il Reparto d’emergenza psichiatrica doveva essere un posto a cui poteva rivolgersi chi cercava assistenza immediata.
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Il sole autunnale picchiava sul parabrezza, riscaldandole il viso. Marian parcheggiò davanti all’edificio rosso con l’entrata in Geitmyrsveien. Era già l’una e mezza. Compose uno dei numeri di telefono che le aveva dato la donna della previdenza, ma Glenn Haug non rispondeva. Un camion della spazzatura entrò nel parcheggio, mentre dei nuvoloni scuri trasportati dal vento andavano ad ammassarsi sui tetti delle case. Marian scese dall’auto ed esaminò il cartello che indicava la posizione del reparto. Clinica medica, Centro regionale di assistenza per l’infanzia e l’adolescenza, Reparto d’emergenza psichiatrica. Dei grossi alberi spuntavano da buche rotonde nell’asfalto; in alto, sopra di lei, brillava il fogliame delle chiome, o ciò che ne restava. Nell’ombra, l’erba vicino all’ingresso era di un verde scuro.