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Tønnesen si era detto ansioso di conoscere Annie Ormberg Johansen. E ora eccoli lì, nel posto dove aveva vissuto Thona, in una casa a schiera rossa di Nordstrand. L’auto di Annie, una Golf, era parcheggiata sotto la pergola. La sua casa era l’ultima della schiera e quindi aveva un giardino leggermente più grande degli altri e nel salotto una finestra in più, rivolta a nord. Era una zona popolata di famiglie con bimbi piccoli. C’erano biciclettine a tre ruote abbandonate qua e là e una grossa sabbiera accanto alle altalene. Adesso Thona avrebbe avuto ventun anni e non le sarebbero interessate né le altalene né la sabbiera. Sulle scale di Annie c’era un vaso con una tuia e sulla targhetta della porta si leggeva QUI VIVONO ANNIE E THONA.
Annie aprì la porta e li fece entrare. Aveva avvolto i capelli in un piccolo chignon scompigliato sulla cima della testa e indosso portava un lungo maglione bianco e dei jeans. Era davvero una bella donna. Marian pensò alla regola fondamentale di non interrogare mai a fondo le persone nella loro casa. Se si fosse reso necessario un interrogatorio vero e proprio, avrebbe chiesto in prestito una stanza a Cato. Non poteva certo far andare quella donna nel seminterrato.
Il salotto era accogliente, il tipico posto che non poteva non piacere a chiunque. Un incrocio tra Ikea e Bolia. Marian non se la cavava molto bene con la scelta dei colori e dell’arredamento. Sapeva cosa voleva, ma il risultato non era mai come lo aveva immaginato. Nel salotto di Annie, invece, tutto si combinava in perfetta armonia. Forse il mobile di pino era un po’ grande, ma sicuramente conteneva parecchi ricordi. Alle pareti erano appese diverse fotografie di Thona. Ce n’erano un paio in cui la bambina appariva un po’ diversa: in una era insieme ad altri bambini, probabilmente all’asilo; nell’altra era con una ragazza. «La mia vicina», spiegò Annie. «Dormiva qui quando avevo il turno di notte. Vi farò assaggiare il dolce che mi ha portato Fanny, una torta alle mandorle ricoperta di panna montata al cioccolato. Vi va un caffè?».
Accettarono entrambi.
Marian si accorse che l’attenzione di Annie era rivolta soprattutto a Tønnesen. Molta gente credeva che gli psichiatri fossero quasi dei veggenti, che potessero ricavare dal nulla un quadro dell’accaduto, come per magia. E lo credeva persino Annie, nonostante fosse un medico.
«Quegli orti erano un posto perfetto per un crimine», commentò Tønnesen. «Sono pieni di nascondigli e vie d’uscita. Su questo devo essere sincero». Annie tagliò una fetta di torta e gliela posò davanti. Lui la passò a Marian e ne ebbe subito un’altra.
Tønnesen domandò: «Hai molti amici, Annie?»
«Ho i miei colleghi», rispose lei. «Da un certo punto di vista spererei che non trovaste Thona. Non fraintendetemi, ma ormai in un modo o nell’altro mi sono ricostruita una vita».
Aveva parlato molto con lo psicologo della pratica del coraggio, di come trovarlo dentro di sé. Camminare a testa alta nei propri pensieri, anche se poi ne usciva con la coda tra le gambe. Lui le aveva parlato della rabbia come se fosse qualcosa di buono, invitandola a essere più mascolina. Una persona che osa essere infuriata ha ricevuto un dono, diceva. E Annie era davvero infuriata, ma faceva tutto il possibile per non darlo a vedere.
«Ma non hai amici?». Marian ripeté la domanda, mentre osservava il piccolo giardino ordinato, con il tavolo e le sedie impilate in previsione dell’inverno.
«I miei colleghi mi offrono il loro sostegno. A me piace stare da sola. È una sorta di strategia di sopravvivenza».
Marian si riconobbe in quelle parole. «Fanny è un medico?».
Annie scosse la testa. «Non è neppure infermiera. L’ospedale di Lovisenberg è all’avanguardia in questo senso. Non per tutti i trattamenti servono persone con tanti anni di studio alle spalle. Basta un semplice calcolo matematico per capire che se si pretendesse di avere solo persone altamente qualificate, si perderebbe in efficienza. Lovisenberg ne è consapevole e usufruisce di tutto il personale a disposizione. Dirigere un ospedale con tante équipe diverse e regole rigide a cui attenersi non fa che allungare i tempi di degenza. Sono cose importanti, soprattutto in un reparto come il nostro, dove i pazienti necessitano di attenzioni particolari».
«Mi sembra una bella idea», commentò Tønnesen. «Buona la torta. Ti dà fastidio vedere di nuovo il caso sui mass media?». Posò il piattino sul tavolo.
«Per lo meno servirà a stimolare la gente», sospirò Annie. «Ho appena riattaccato il telefono in faccia a una donna che sosteneva di essere una medium. Era da tanto che qualcuno non mi chiamava per parlare di Thona. Ha detto di aver sentito la voce di mia figlia, di avercela in testa e di poterla riprodurre alla perfezione. Ha detto che se volevo, poteva parlare come lei. È stato tremendo. Ho riattaccato subito e non si è fatta più sentire. Ma non sono mai riuscita a farmi una ragione di come l’abbia potuta lasciare negli orti».
Tønnesen colse l’occasione per continuare con le domande. «Vorremmo sapere qualcosa in più sul padre di Thona».
Annie si passò nervosa le dita sul mento. «Sapete già tutto, è nei verbali degli interrogatori. John Johansen mi abbandonò quando Thona era in fasce. Io lo chiamo John Johansen. Non ce la faccio a raccontare tutto quanto da capo un’altra volta. Ebbe un’altra figlia. Ci separammo e loro si trasferirono in Australia, all’altro capo del globo. Poi ebbero una seconda bambina. E così adesso ha due nuove figlie».
Marian fece caso all’espressione nuove figlie.
«Mi resta difficile parlarne, persino con voi. Diciamo pure che io e John Johansen non ci lasciammo con toni amichevoli».
Marian si protese leggermente in avanti. «E allora perché porti ancora il suo cognome?»
«Perché lo portava Thona. Lui aveva dieci anni più di me e pagava tutte le bollette, ma voleva che tenessi in ordine la casa, facessi il bucato e preparassi da mangiare. Per lui la mia idea di diventare medico era una sciocchezza. Conclusi gli studi dopo che lui mi lasciò, dopo la nascita di Thona».
«Capisco», replicò Marian. Guardò Annie mentre si alzava per andare a prendere altro caffè. Stavano facendo tante chiacchiere a vuoto. Se solo avesse potuto evitare di trascinarsi dietro Tønnesen. La distraeva, era un elemento di disturbo. In sostanza le era solo d’intralcio nella conversazione con Annie.
«Devo ammettere di non aver fatto niente per far rimanere Thona in contatto con il padre», confessò Annie. «John Johansen in seguito me lo ha rimproverato. Volete vedere la camera di Thona?».
Marian osservò il poster della Carica dei 101 appeso sopra il letto, soffermandosi sulla crudele antagonista, Crudelia De Mon, la donna malvagia interpretata da Glenn Close, che rapisce i cuccioli per farci delle pellicce.
Annie incrociò le braccia, come a volersi avvinghiare in uno stretto nodo. Dalla finestra socchiusa proveniva uno spiffero. «Ho fatto del mio meglio, ma non è stato abbastanza», concluse.
Il giorno dopo la scomparsa di Thona il sole autunnale era rotondo e caldo. Annie si era seduta nella stanza della bambina. Le uniche cose che si muovevano lì dentro erano i granelli di polvere che fluttuavano qua e là nei raggi del sole. Una colonna così densa che le era quasi sembrato di poterla ghermire. Di quella colonna di luce non era mai riuscita a dimenticarsi. Lo zaino nuovo era per terra. Nuovo, ma di quindici anni prima.
Era come se la distanza che la separava da Thona, invece di aumentare, non facesse che ridursi. Annie sapeva che la cosa più sciocca in quel momento sarebbe stata sperare in un esito positivo, che non poteva essere altro che il ritrovamento dei resti della bambina. Non poteva esserci di peggio, ma al contempo sarebbe stato anche un grosso, grossissimo sollievo.
«Permisi a Thona di vedere quel film sui dalmata», disse Annie, «anche se in realtà la storia è un po’ cruenta. Ma ovviamente nel film c’è il lieto fine».