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Sonja Schavenius era nella cucina della villa in muratura di Smestad, una casa alla moda eccessivamente sfarzosa che aveva il colore delle caramelle d’altri tempi. Gettò uno sguardo fuori dalla finestra, al giardino grande quasi come un parco, con i suoi vecchi alberi maestosi. Hallgrim aveva fatto mettere dei lampioncini che illuminavano i rami, di modo che fossero visibili al buio. Abitavano in un vecchio quartiere residenziale fatto di grandi ville che sorgevano all’interno di ampi giardini. Le imprese edili stavano riempiendo la zona di villini squadrati in stile funzionalista e di case a schiera, ma la loro proprietà non era stata toccata né lo sarebbe mai stata. Tornò a guardare fuori. Il cancello in ferro battuto era aperto e all’entrata c’erano due uomini vestiti di scuro su cui si rifletteva la luce dei lampioni. Indossavano dei caschi integrali bianchi. In piedi immobili, fissavano la casa. Sonja aprì la finestra. «Che volete?!», gridò con la voce stridula, le corde vocali incrinate dal fumo e forse dal troppo vino. E dall’età. Non era la prima volta che li vedeva. Gli uomini si ritirarono e scomparvero dietro la siepe, tornando sulla strada. Subito dopo Sonja udì il rumore dei motori delle motociclette che venivano avviate e sparivano nel nulla. Le ferie erano il periodo dei furti nelle case, ma non sapeva quando cominciassero le vacanze autunnali per le scuole.
Richiuse la finestra con un botto fragoroso e osservò il proprio aspetto sciupato nel vetro. Aveva le sue amiche del club, ma a loro non aveva raccontato niente. Quando le chiedevano di Leo, si inventava qualcosa. Le sembrava impossibile che non notassero il suo sfinimento. Ma ormai erano tutte così vecchie da evitare per cortesia i commenti sull’aspetto fisico. Provava un senso di perdita. E rabbia! E disgusto! Prima era sopraggiunto lo shock, poi il rifiuto.
Hallgrim era andato a letto, benché fossero solo le dieci e mezza. Lei e il marito erano una coppia sproporzionata. Lui grande e grosso con un viso pieno. Lei magra, portava la stessa marca di jeans delle sedicenni e usava camicie leggere, con perle dorate a incorniciarle il collo, o delicati twin-set eleganti di morbida lana pregiata. Aveva dei begli occhi, di una tonalità verde che cambiava con la luce, e la bocca era perfetta, se si escludevano le rughe sul labbro superiore; i denti erano bianchissimi, anche se forse leggermente troppo grandi. I capelli sbiaditi erano ovviamente troppo lunghi per una donna della sua età, che da lì a qualche giorno avrebbe compiuto settantasei anni. I riccioli della permanente erano quasi spariti. Il suo viso aveva un aspetto strano. Il problema di organizzare eventi era che doveva sempre essere pronta a destreggiarsi a destra e a manca. Le amiche le dicevano che faceva anche troppo, che sembrava una di quelle signore di Hollywood, ma si sarebbe potuto dire lo stesso di alcune di loro.
Sonja Schavenius pensò al nipote Leo. Quel bel bambino di nove anni con i capelli leggermente lunghi. Aveva delle specie di allucinazioni, le sembrava di sentirlo arrivare. Ma il nipote non arrivava. Era come se sulla casa si fosse steso un telo scuro, un silenzio smisurato. Quella villa era opprimente già da prima. Nelle case in legno si sentivano dei rumori; quella invece era in pietra, come una tomba. Le stanze erano troppe, la cucina era vecchia e avevano otto camere da letto, di cui ormai non avevano più bisogno. Il figlio, la nuora e Leo non andavano più a trovarli. Era come se il male avesse contaminato la casa.
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Annie si era intrattenuta troppo a lungo. Quando infine se ne andò, Marian prese il foglietto e lo osservò. La calligrafia sembrava artefatta. Prese il computer portatile dal tavolo da pranzo, si sedette sul bordo di una sedia ed entrò nell’archivio della polizia. I mass media non erano ancora venuti a sapere che Andreas Lindeberg era sospettato di aver abusato di due bambini all’asilo di Gulltoppen, dove aveva lavorato appena pochi mesi. Le indagini sul caso non si erano ancora concluse. Vide che anche Gustav Joner risultava coinvolto in un’inchiesta riguardante un bambino dei condomini in cui lavorava. Certo era piuttosto strano, queste cose Annie non poteva saperle. E sul metodo di tortura Marian si sarebbe informata. Su Hallgrim Schavenius non c’erano altri dati se non quello che lo dichiarava membro di una loggia massonica. Le era già capitato in precedenza di trovare persone coperte da una rete segreta di conoscenze. Forse, tra i massoni, Schavenius aveva un amico che lavorava in polizia. Ma il fatto che non ci fossero dati su di lui, andava a minare i sospetti che fosse stata Annie a fabbricare il biglietto. Uscì svelta dall’archivio e richiuse rapida il computer.
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La facciata in legno era debolmente illuminata dalle luci esterne. Aveva un aspetto imponente quella casa con la torre d’angolo e la trave centrale intagliata. In città il cielo non era mai del tutto nero, perciò i contorni risaltavano netti. Le finestre di lei erano ancora illuminate, a differenza di quelle della vecchia signora del pianterreno, completamente al buio. Il lontano brusio della città era come un sibilo attutito, come se alle sue spalle giacesse un grosso animale addormentato. Era colmo di odio e di collera, talmente intensi da poter scuotere gli alberi del giardino. Non sopportava più i grandi giardini. Avrebbe dovuto essere razionale, ma lei era il simbolo della sua disgrazia. Quando aveva guardato dritto nel suo occhio dal foro della soffitta, aveva sentito il terreno franargli sotto i piedi. Così non andava. Per un attimo gli si oscurò la vista e una fitta dolorosa si propagò verso l’alto, attraversando la gola. Aveva covato a lungo la vendetta. Adesso doveva resistere fino a quando lei non fosse più esistita.
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Marian non riusciva a dormire, perciò si sedette al tavolo da pranzo e si mise a leggere dei documenti. La casa era silenziosa, come se stesse in ascolto degli inquilini, in attesa delle loro mosse.
Pensò all’artista. Sicuramente stava dormendo a quell’ora. C’era qualcosa di magico nella capacità di creare. Gli incartamenti svolazzarono da tutte le parti. Un bigliettino attaccato a un foglio con del nastro adesivo si staccò e andò ad atterrare sul pavimento insieme al foglietto di Annie. Fu allora che le vide di nuovo, le formiche, benché fosse notte. Cercò su internet delle ditte di disinfestazione e scelse la Anticimex. Erano aperti ventiquattr’ore su ventiquattro e quindi telefonò, ma l’uomo che le rispose la informò che l’apertura notturna valeva per i ratti, non per le formiche o le blatte.
«Ma le formiche comuni non entrano nelle case in autunno», protestò Marian, alzandosi e dirigendosi verso la finestra della cucina.
«Che aspetto hanno queste formiche?», domandò l’uomo. «Sono chiare, quasi trasparenti?»
«Gialle tendenti al marrone, con la parte posteriore più scura», spiegò Marian. «Sono quasi giallo senape, sembrano trasparenti». Si mordicchiò un’unghia.
«Allora non sono formiche comuni, ma formiche faraone. Posso venire domani».
«Devi venire subito», insisté Marian guardando l’orologio che segnava l’una di notte passata. «In fondo siete aperti ventiquatt’ore su ventiquattro».
Quando un’ora dopo l’uomo della ditta di disinfestazione arrivò, non c’era neanche una formica in vista. Marian si sentiva la bocca secca. Si avvolse meglio nella vestaglia.
«Ho usato spray e cloro, ma non è servito a niente. Ora si sono ritirate sotto le assi del pavimento, ma tra poco torneranno fuori».
L’uomo, con indosso la sua tuta blu scura, entrò con lei in salotto.
«Devono essere formiche faraone di origine tropicale», ripeté. «Non tollerano le temperature esterne. Se ne vedono sempre di più di questi tempi. Arrivano in Norvegia nelle valigie della gente che torna dai viaggi all’estero. Le specie importate sono di un genere cosmopolita che trova rifugio dentro le case. La regina può vivere fino a trentanove giorni e deporre quattromilacinquecento uova. Le formiche faraone mangiano di tutto, ma hanno una predilezione particolare per i cibi dolci o per gli alimenti ad alto contenuto proteico. È una specie che vive nelle crepe e può causare malattie asmatiche».
Improvvisamente Marian si sentì a disagio nella vestaglia. Si mise ad armeggiare nervosamente con il cellulare.
«Si possono eliminare? Costa molto?»
«Può essere costoso, sì».
«Quanto?». Riappoggiò il telefono sul tavolo.
«Intorno alle 20.000 corone».
«Ma siamo matti? Se è così le ammazzo da sola. Che tipo di veleno usate?»
«Mettiamo delle esche fatte con del fegato fresco in cui è stato iniettato del veleno. Devi sentire se anche i tuoi vicini hanno lo stesso problema».
«Ho già chiesto, ma dicono che da loro di formiche non ce ne sono. Mangiano la carne? Sono predatrici? Che tipo di veleno usate?»
«Non si trova in giro, ha una distribuzione limitata».
«Ma come si chiama?»
L’uomo scosse la testa. «Non sono cose che può acquistare un privato. Devo proseguire il mio giro. Telefonami se decidi di usufruire dei nostri servizi». E così se ne andò.