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Sonja Schavenius si svegliò nel buio fresco della camera e si rizzò nel grande letto matrimoniale. Era notte. L’orologio segnava l’una. Ritrovava subito quel senso di malessere, non appena apriva gli occhi. Hallgrim russava, steso come una balena nella stanza degli ospiti. Ma non era stato il russare a svegliarla. Lo sentì di nuovo, era il rumore di una motocicletta. Un pensiero improvviso la spinse ad alzarsi. Si avvolse nel kimono, scese le scale e aprì la porta della veranda.
Erano in due e guardavano in direzione della casa. Non appena Sonja aprì la porta che dava sul giardino e mise piede sulla terrazza ovale, i due girarono la schiena e sparirono lungo la strada. L’aria era piuttosto fredda. In cielo brillavano nugoli di stelle. Le foglie frusciavano e tremolavano nella brezza. Sonja avanzò cauta nel giardino, sull’erba umida, fino al cancello in ferro battuto, annotando dentro di sé sia il giorno sia l’ora: era la notte di mercoledì 21 settembre. Si strinse meglio nel kimono. Poi vide di nuovo quegli uomini vestiti in pelle. Erano poco oltre nella strada, sempre l’uno accanto all’altro. Le passò davanti un gatto, quello rosso, quello che di giorno aveva l’abitudine di dare la caccia agli uccelli nell’abbeveratoio del giardino. Sonja Schavenius avvertì un brivido di freddo. Davvero Hallgrim sarebbe stato messo alla berlina davanti a tutti, sarebbe successo sul serio? Il gatto le balenò di nuovo davanti, come latore di quel pensiero. Lei si chinò per accarezzargli la morbida schiena, facendo scorrere la mano lungo la coda e poi in alto, fino a farla scivolare via. Dopodiché tornò dentro. Le ore centrali della notte erano il tempo dell’angoscia. Lui però dormiva. Lui, che aveva rovinato tutto. Forse gli uomini delle motociclette stavano facendo un giro di ricognizione. D’un tratto Hallgrim comparve in cima alle scale.
«Torna a letto!», gli gridò lei. «Ho solo sentito qualcosa fuori per strada».
Non avrebbe mai potuto rivolgersi a lui con quel tono prima, ma ora che era stato smascherato si comportava come un agnellino. Come una lurida pecora nera. Sonja appese il kimono in bagno. Avrebbe dovuto bruciarlo. Hallgrim glielo aveva comprato durante uno dei loro viaggi. Se lo ricordava come se fosse stato ieri: erano andati a Londra, lei compiva cinquant’anni. Era successo venticinque anni prima. Avrebbe desiderato una grande festa, ma lui aveva preferito che fossero solo loro due a festeggiare e le aveva offerto quel viaggio. Lei sarebbe voluta uscire per un giro in città non appena arrivata in albergo. Era tutto fantastico. Lui voleva aspettare il giorno dopo per andare fuori. Ma questo non è un viaggio come un altro, gli aveva fatto notare Sonja. Compio cinquant’anni. Non posso essere io a decidere una volta tanto? Si era subito resa conto che era tutto rovinato. Di nuovo! Hallgrim aveva sferrato un calcio alla sua valigia mentre usciva dalla stanza e non era tornato se non dopo la mezzanotte. Lei si era messa a letto, ma lui l’aveva sollevata e l’aveva scossa finché lei non si era sentita la testa in frantumi. L’aveva agguantata per i capelli, strappandole delle ciocche. Ciò che Sonja ricordava meglio di quel viaggio erano le tende della stanza d’albergo, beige, pesanti e sempre tirate. Attutivano il rumore del traffico che giungeva dalla strada in basso. Quando erano tornati in Norvegia, il figlio Axel aveva chiesto se si fossero divertiti. Moltissimo, aveva risposto Hallgrim. Osservando il volto triste del figlio, Sonja aveva compreso che lui sapeva. Aveva dieci anni all’epoca.
Sonja Schavenius tornò nel letto matrimoniale e si sdraiò sui cuscini, pervasa da un senso di inquietudine. Hallgrim era calato di peso nelle ultime settimane e aveva preso a camminare trascinando i piedi. Le aveva imposto di promettergli che avrebbero superato tutta quella faccenda insieme. Lei lo aveva sentito: «Mettiti a letto, Leo. Perché, nonno? Fai come ti dico, mettiti a letto!». Si era imposta di non agire d’impulso, ma di fare piani più a lungo termine. Lasciargli credere che sarebbe rimasta. Sentiva le fitte dell’odio spandersi fino ai polsi.
*
Quel mercoledì mattina Marian stava bevendo una tazza di caffè caldo vicino alla finestra. Era riuscita a frenare i propri impulsi. Non aveva bevuto. Era rimasta a casa per un giorno e non aveva fatto altro che dormire. Non aveva avuto troppi pensieri per la testa e aveva mangiato cibo sano. Si era comprata un’entrecôte, delle patate e una buona salsa, verdure in abbondanza e succhi di frutta. Sapeva da sola di cosa aveva bisogno e ora si sentiva meglio.
Vide la vecchia signora del pianterreno trascinarsi fuori dal giardino con una grossa borsa di giornali, lasciando il cancelletto aperto. Maledetta vecchiaccia. Si sorprese a domandarsi che genere di vita avesse vissuto. Voltandosi, incrociò gli occhi canini di Birka e le sembrò di rivederla quando era un tenero cucciolo. Fu così che tornò a galla la sensazione che Birka era vecchia e che presto sarebbe morta. E tornarono a galla anche gli stessi pensieri. Si rivide davanti il busto, quella scultura bianca, bella, ma al contempo raccapricciante. Era un’illusione, o era reale? Birka le si sfregò nell’incavo delle ginocchia e lei ebbe come l’impressione di sentirle cedere. Doveva andare ad aprire il frigorifero per vedere se era tutto come lo aveva sistemato? La sua testa aveva qualcosa che non andava? Forse per colpa dello stress non ricordava di aver arrotolato il piumino. E forse era stata la paura delle fiamme vive a spingerla a gingillarsi con quella candela elettrica un paio di settimane prima. Forse non c’era mai stato nessuno su in soffitta e quella scultura non rappresentava affatto lei. E il tocco di qualcuno che spingeva la maniglia, era forse solo uno dei rumori di quella vecchia casa. Certe case producevano rumori, le fibre del legno erano vive. Si voltò e toccò gli oggetti sul bancone della cucina: bollette da pagare, una ciotola e una tovaglietta. Era stato l’artista a infilarsi in casa sua mentre lei era via? Doveva stargli lontana. O forse era stato Glenn Haug? Era riuscito a rintracciarla? Come se volesse vendicarsi, spaventarla perché smettesse di indagare. Ma com’era riuscito a entrare?
Aprì la credenza. C’era odore di spezie, zucchero e cannella. Era per quello che quelle maledette bestiacce brulicanti entravano in casa? Gettò tutto in una busta, la richiuse con un nodo bello stretto e la posò sul bancone della cucina. Il foglietto che le aveva portato Annie era ancora sul tavolo da pranzo. Non lo aveva più guardato. Non c’era un’amicizia intima tra di loro. La bugia patologica era una malattia, da non confondersi con la fantasia. Annie voleva avere un’amica e aveva deciso che lei lo fosse. Ma a Marian non importava di nessuno. Invece ad Annie di chi importava? Adesso, però, doveva concentrarsi. Una cosa alla volta. Indossò un paio di scarpe da ginnastica. Gustav Joner era stato torturato nella maniera più atroce; non riusciva a togliersi dalla testa le foto del luogo del ritrovamento.
Avrebbe contattato l’ipnotizzatore, Shai Timo, per sentire che ne pensava, se poteva provare a parlare con Elly. Era una faccenda piuttosto controversa, non poteva informare né Tønnesen né Cato. Cosa aveva detto Elly del padre? Papà era un incubo di figlio. Anzi, è ancora un incubo di figlio. Davvero Elly non aveva avuto contatti con il padre da piccola? E poi, guarda caso, lui si era trovato a passare dagli orti proprio nel giorno in cui era sparita Thona. Se così era, anche quella avrebbe potuto considerarsi una specie di prova. C’era qualcosa che non tornava, ma cosa? Marian sentiva che era difficile seguire un filo. Anche nel fatto che la macchina di Annie fosse parcheggiata vicino alla palazzina antica il giorno in cui era scomparsa Thona c’era qualcosa di strano, ma Marian non riusciva a capire cosa. Avrebbe avuto bisogno lei per prima di un ipnotizzatore.
*
Marian parcheggiò sul marciapiede dal lato di Nordre Gravlund e rimase seduta in macchina. Davanti alle lapidi avevano piantato dell’erica autunnale, molto bella con il suo colore rosa acceso.
Compose il numero di Shai Timo, che le rispose subito. Parlava un danese zoppicante, con uno strano accento cinese. Marian spiegò brevemente il motivo della chiamata e lui si dichiarò disponibile ad aiutarla. Sembrava fin troppo entusiasta, evidentemente poco abituato a richieste del genere. Marian disse che lo avrebbe contattato al momento opportuno, dato che Elly non sarebbe tornata prima di Natale. Forse avrebbe dovuto telefonarle subito, ma non ne aveva voglia. In seguito si sentì un po’ stupida per aver contattato quel cinese.
Poi scorse Oda, l’aiutante di Myrtel, avvolta in un grosso piumino. Costeggiò l’alto recinto sul lato opposto della strada con un’andatura a papera e poi sparì in direzione della rotatoria. Elly aveva detto che lavorava in una tipografia.
Quando diresse lo sguardo verso la rete del cancello, la vide: Myrtel Haug, con un cappotto celeste e degli stivali di gomma. Stava togliendo i vestiti dallo spaventapasseri con dei bruschi strattoni. Quello scheletro fatto di ramoscelli fece rabbrividire Marian. Il ritmo e i modi autoritari con cui avveniva quel cambio d’abiti facevano capire che non si trattava solo di togliere dei vestiti a uno spaventapasseri, ma di qualcosa di ben più significativo. Marian vide che Myrtel gli parlava. Poi si allontanò.
In quello stesso istante telefonò Tønnesen.
«La sorella di Myrtel vive in una casa di riposo a Rælingen», cominciò a raccontare. «Dice di non sapere niente di questa faccenda. È su una sedia a rotelle e ha visto Glenn Haug solo in un paio di occasioni. Quell’uomo ha cercato di spillarle soldi e oggetti di valore. Le ha portato via tutti i gioielli di famiglia».
«Myrtel ed Elly hanno vissuto da lei per qualche giorno dopo la scomparsa di Thona. Che ne dici di dare una controllata alla sua casa? Quella dove viveva all’epoca?»
«Ti dico che ho pensato la stessa cosa, Marian. Vedremo se sarà possibile».
*
Arrivata a casa, Marian si arrampicò sulla scala d’acciaio e aprì il cassetto del comodino. Osservò i piccoli oggetti che vi erano riposti. Glenn Haug era un cleptomane, per lo meno quando si trattava di cose che poteva rivendere. Spostò un cofanetto e le cadde l’occhio su un mazzo di buste tenute insieme da un elastico. In fondo al cassetto c’era una vecchia scatola di cipria decorata con delle perline. Richiuse il cassetto sbattendolo, si inginocchiò accanto all’armadio e aprì l’anta. Il monile d’argento, l’unico che possedeva, era dentro la propria custodia. Sistemò il mucchio di vestiti e tastò la parete posteriore. Era intera, ma quando la spinse si accorse che si muoveva e che poteva essere rimossa. In poche parole bastava sollevarla per toglierla. Si fece silenzio e poi nella testa udì una nota insistente, che le diede l’impressione che ci fosse qualcosa che avrebbe dovuto ricordare. Chi erano i suoi nemici? C’era un odore di deodorante da uomo, o forse di qualcos’altro? Restò per un paio di minuti seduta in ginocchio, immobile, in silenzio, poi si alzò e scese di nuovo di sotto in salotto. Doveva entrare nella soffitta e riavvitare il pannello dell’armadio.
Andò nello scantinato a prendere un trapano e un pacchetto di viti e si chiuse in soffitta. Chissà se c’era un’altra apertura uguale che portava in casa dell’artista. Gattonò fino alla parete che confinava con l’appartamento di lui e tastò con le dita sotto il tetto a spiovente. Se ci fosse stata un’apertura avrebbe dovuto sentire una zona in rilievo. Trovò qualcosa che doveva essere un’apertura corrispondente alla sua, afferrò con le dita il margine superiore e lo tirò piano verso di sé. Il pannello si staccò e Marian poté sbirciare attraverso la stretta fessura. Poi, senza fare rumore, lo rimosse del tutto. Era davvero strano che anche quel pannello fosse svitato.
Qual era la funzione originaria di quei passaggi? Erano forse uscite antincendio? Marian sbirciò dentro la casa. C’era un fregio all’interno, un cornicione. La casa dell’artista non aveva una torre. La stanza era all’incirca tre metri più in basso ed era completamente diversa dalla sua. Era l’atelier, pieno di sculture a mezzo busto, disposte sul tavolo e sulle mensole. Dell’argilla rossa fluttuava in una bacinella dall’acqua densa e brunastra in superficie. Le finestre alte e la porta che si apriva sulla veranda erano velate da sottili tende bianche. Fu allora che Marian udì una risata cristallina di donna, che veniva da un’altra stanza, probabilmente la camera da letto. Per un attimo le si oscurò la vista. Tremante, risistemò il pannello al suo posto e attraversò gattonando la soffitta. Chi era in realtà quell’uomo? Si sentiva le lacrime in gola. Gli occhi erano pieni d’acqua. Il respiro cambiò ritmo: una donna in camera da letto.
Riavvitò rapida il proprio pannello e notò che lassù non c’erano formiche. Evidentemente faceva troppo freddo. Si sentiva afflitta, rassegnata e infreddolita. Si asciugò la bocca con gesto mascolino. Non c’erano altro che polvere e sporcizia lassù. E ragnatele che si muovevano piano nel refolo della corrente.
Trovava intollerabile lo stato in cui l’aveva gettata quella risata di donna, la sensazione di essere finita, che tutto fosse rovinato e non restasse più niente. Era stanca.
Tornata di sotto nel proprio appartamento, si sedette per un attimo sul divano e notò che c’era della polvere sotto il tavolo. Non doveva rimandare troppo le pulizie. Riportò il trapano giù in cantina, poi uscì per far fare una passeggiatina a Birka.
Si accorse della presenza di alcune buche circondate da mucchietti di terra lungo il muro perimetrale. Possibile che ci fossero dei topi?
Andò a cercare un rastrello e rimosse lo strato di foglie appiccicate insieme intorno al muro, scoprendo in questo modo altre buche nel terreno. Fece un passo indietro e lanciò un’occhiata alla facciata. Adesso le tende dell’atelier erano chiuse. La vecchia signora del pianterreno la osservava dalla finestra della cucina, per metà nascosta dietro i pannelli in vetro smerigliato che dovevano servire a evitare sguardi dall’esterno. I capelli grigi scarmigliati sembravano un ammasso incolto.
Marian entrò e suonò il campanello. Thyra Vinding aprì all’istante e se la ritrovò di fronte, con indosso un vestito sporco e un grembiule bianco troppo grande.
«Ci sono formiche in casa tua?». Marian aveva ancora in mano il rastrello.
«No», rispose la donna. «Non ce ne sono».
«Ne sei sicura?»
«Io non ho bambini», esclamò la donna richiudendo la porta.
Allora era così che stavano le cose. Era fuori di testa. Accidentaccio. Con una rimbambita in una casa di legno si poteva anche rischiare di lasciarci le penne.