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Dan Brodahl aveva detto che avrebbe potuto riceverla nel proprio studio nonostante fosse sabato, quando gli aveva espresso il desiderio di parlare con lui senza che Leo fosse presente. Nella stanza c’era un odore un po’ pesante. Era leggermente più alta di lui, non ci aveva mai fatto caso prima. Lui la pregò di accomodarsi a sedere.

«La morte di mio suocero è un fatto drammatico, ma io sono contenta». Aveva una voce diversa, chiara e decisa. Se ne accorgeva lei stessa. «Ti sembra normale? Rallegrarsi per una cosa simile?»

«È comprensibile», la tranquillizzò lui. «Non ti devi sentire in colpa se provi certi sentimenti. Sono normali».

Lei restò in silenzio per un attimo, studiando i disegni dei bambini alle pareti, alcuni dei quali erano nuovi, e la casetta di pasta di sale collocata sulla scrivania del medico insieme a un gattino dipinto di rosso. Glieli aveva regalati Leo, che li aveva fatti a scuola. Erano la casa e il gatto della nonna.

«Questa vicenda sembra l’opera di un pazzo», proseguì la donna. «Sono venuta per chiederti della tortura a cui è stato sottoposto mio suocero. La polizia dice che potrebbe avere qualcosa a che fare con Leo, è possibile? Quel portinaio che è stato ucciso, aveva abusato anche lui di un bambino, giù in cantina».

«Era scritto sui giornali». Dan Brodahl sostenne il suo sguardo.

La madre tacque, poi continuò: «Dicono che non possono darci informazioni, non ancora, e io mi sono fatta l’idea che ciò che è successo a mio suocero abbia a che vedere con quello che lui ha fatto a Leo. È un pensiero terribilmente difficile da sostenere per noi. La polizia ha chiamato qui da voi?»

«Sì, ovviamente in certi casi vanno sempre molto a fondo. Ci hanno contattati, ma nessuno degli altri genitori è stato qui. Nel reparto lavorano altri medici, ma io personalmente non ho in cura nessuno dei bambini coinvolti a parte Leo».

«Non mi sorprenderebbe se fosse stato membro di qualche specie di club. Forse dovrei sentirmi la coscienza sporca per il fatto di percepire la sua morte come un fatto positivo. Ha avuto quello che si meritava. Forse ci sono degli aspetti che devo ancora elaborare».

«Non devi niente a quell’uomo».

«Leo ha riavuto la sua nonna e io mia suocera. Axel adora sua madre. Sonja significa molto per tutti noi. Quando le cose sembravano volgere al peggio, volevo che ci trasferissimo negli Stati Uniti, che fuggissimo da tutto. Ma ora Leo è al sicuro», proseguì la madre.

«Ed è un bene».

Lei sorrise. «Abbiamo fatto un giro nella villa di Smestad e ci siamo riappropriati di tutte le stanze. Sonja dice che sono tornate le visioni, quelle che annunciano delle visite, non dei nemici. Sonja e io siamo in sintonia, a volte capita che ci alziamo in piedi contemporaneamente per tirare giù le tendine. Sonja ha lasciato entrare in casa il gatto rosso, ora vivrà da lei. Leo impersonerà uno dei Re Magi nella recita di Natale a scuola. Hanno già cominciato le prove e lui non vede l’ora. Un saggio re magio, certe volte il mio bambino mi sembra persino troppo saggio».

*

Era la mattina di lunedì 24 ottobre. Marian posò un bicchiere di carta con il caffè davanti a Elly Haug e bevve un sorso del proprio. Il lampadario gettava una luce scarsa sulle pesanti pareti in muratura.

«Te ne stai qua sotto senza finestre?». Elly posò la sottile giacca a vento sulle ginocchia.

«Mi piace così, starmene isolata dal resto del mondo, senza niente o nessuno che mi disturbi. Nei reparti dei piani di sopra ci sono solo scocciature».

Marian sorrise. Era davvero carina quell’esile creatura. Il viso di Elly aveva ereditato parte dei lineamenti di Myrtel. Si era messa il fard, ma non tanto da creare un effetto innaturale.

Dietro la porta c’era la brandina pieghevole, camuffata sotto una coperta. Il piumino e il cuscino li aveva portati a casa. Aveva dovuto eliminare una montagna di formiche con l’aspirapolvere, ma non era successo altro. Non aveva visto né Cato né l’artista e neppure Glenn Haug. Tønnesen a sua volta non si era fatto vivo con le nuove informazioni di cui si era tanto vantato.

«Devo essere sincera, ti confesso che ho avuto una specie di crollo di nervi», le raccontò Elly, «per questo avevo difficoltà persino a leggere i tuoi messaggi». Fece roteare il bicchiere di carta tra le mani.

«Lo avevo capito».

«L’università non chiude prima di dicembre, ma mi sentivo così nervosa che sono dovuta tornare a casa. Posso considerarti un’amica, Marian?»

«Certo», fu la risposta. Marian controllò che il cassetto con la pistola fosse ben chiuso. Aveva il numero dell’ipnotizzatore salvato sul cellulare.

Si era sentita molto meglio negli ultimi giorni. A casa il foro nella porta era stato riparato e l’armadio era intatto. Aveva cambiato anche il lucchetto della soffitta. Nella sua testa tutto stava tornando alla normalità. Ma là fuori Glenn Haug era ancora a piede libero.

«Anche se questo caso non dovesse essere risolto, possiamo restare in contatto, Marian? È diventato tutto più semplice da quando ti ho conosciuta. È una strana sensazione».

«Certo», fece Marian guardandola. Elly non era tanto stupida da non capire che quella di Marian era una strategia.

«Mi hai fatto capire che ci sono cose che ho rimosso». Per un attimo Elly guardò il soffitto.

«Si tratta di dissociazione, Elly, annacquamento delle impressioni sensoriali. Il cervello soffoca i ricordi quando viviamo esperienze estreme, per permetterci di sopravvivere».

Elly annuì. «Ne sai qualcosa anche tu, non è vero?»

«Direi proprio di sì. Ricordi che ti avevo proposto l’ipnosi? Ho contattato un ipnotizzatore. Si chiama Shai Timo e lavora per la polizia», mentì. Non disse che si trattava di un metodo non approvato.

Elly abbassò lo sguardo sulle mani sottili.

Marian bevve un sorso dalla propria tazza. «Lui è disponibile in qualunque momento. Ti ricordi che hanno dovuto farti la lavanda gastrica perché avevi ingerito una pianta velenosa?»

«Fu subito dopo la morte di mia madre». Elly sollevò gli occhi e li fissò per un attimo sul vecchio calendario della polizia alla parete. «Dovettero portarmi all’ospedale». Sentiva il cerchio stringersi intorno a sé. Quello che ricordava non era il sentiero d’erba, o il gioco con la palla. Quelle erano immagini false. Era successo qualcosa nella casetta più piccola prima che andassero dalla sorella della nonna a Rælingen.

«Abitavamo in un’altra casa quando Thona sparì. In una zona più interna degli orti», le raccontò.

Il caso della bambina scomparsa
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