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Nel corridoio del piano superiore la parete era tappezzata da una serie di fotografie in bianco e nero sbiadite. C’era la foto di una sposa risalente all’incirca agli anni Sessanta, una donna piccolina, con un vestito corto, i capelli scuri e ricci, un velo e un bouquet di dimensioni eccessive. Lo sposo era robusto, aveva dei capelli lisci inumiditi e pettinati all’indietro e un naso da pugile schiacciato. Fissava l’obiettivo, chino sulla sposa. Un’altra foto mostrava un cresimando con i fratelli. Il ragazzino al centro era moro e magrolino, facile da riconoscere: era l’uomo più piccolo. Il cresimando si era mosso mentre veniva scattata la foto, infatti la giacca sembrava quasi scivolare via, andando a confondersi con lo sfondo.
Su un lato c’era una ragazzina paffutella, la stessa persona che aveva visto giù in cucina, che quindi doveva essere la sorella. Sull’altro lato c’era un ragazzo più alto, e più triste, che doveva essere l’altro uomo. Erano sul margine di un bosco dagli alberi spogli.
L’uomo lo spinse in fondo al corridoio, verso un mobile basso e profondo, costruito sotto un quadro elettrico. Lo sportello in legno era stato sostituito da uno in ferro, che vi era stato imbullonato. Andreas si rannicchiò e vi entrò, che altro poteva fare? C’erano una pila di asciugamani logori lì dentro insieme ad altre cianfrusaglie, un vaso con un motivo a righe e un vecchio zaino grigio. In cima, lungo un listello, c’era un pezzo di tubo scanalato in plastica e sulla parete sopra la porta una lampadina dalla luce forte. Dal legno del tetto inclinato lo fissavano occhi di animale. Si voltò sulla schiena e restò sdraiato con le ginocchia sollevate in alto come picchi appuntiti, facendole sbattere in maniera meccanica l’una contro l’altra. L’osso picchiando contro l’osso produceva un suono cavo.
Dopo un po’ l’uomo tornò con una fetta di pane e un bicchiere d’acqua. Andreas capì che per lo meno non l’avrebbero lasciato morire di fame, ma i succhi gastrici bruciavano. La porta fu richiusa. Era intrappolato lì dentro. Quella non era come la tana di una volpe, con varie vie d’uscita. Ebbe la netta sensazione che sarebbe morto. E allora sgorgarono le lacrime.
*
Marian entrò nel sito dell’archivio anagrafico e cercò Glenn Haug. Adesso aveva quarantacinque anni. Ne aveva trenta quando era stato sospettato di rapimento. Poi entrò nel sistema informatico della polizia e vide le foto di allora, una che gli era stata scattata di profilo e l’altra frontalmente, prima di essere chiuso in cella. L’uomo aveva già all’epoca i capelli radi, rossicci e scarmigliati. Il viso un po’ sbieco tipico degli alcolizzati; uno sguardo penetrante con occhi leggermente sporgenti cerchiati di nero. Veniva in mente un pesce. Non si poteva certo dire un bell’uomo, in altre parole. Ma forse ora era diverso.
Marian non trovò il profilo di Annie Ormberg Johansen su Facebook. Entrò nel sito della Kripos e lesse in fretta le informazioni sui cold case. Oltre al nuovo indirizzo mail, c’era il pulsante rosso. “Premete il pulsante”, c’era scritto, “e verrete indirizzati direttamente al sito web della Kripos: www.tips.kripos.no. Non esitate a inviarci le vostre informazioni. Anche i dettagli più insignificanti possono risultare importanti”. Marian chiuse la pagina e tirò a sé la cartellina in cima al mucchio, da cui cadde la fotografia del volto ben noto di Thona Ormberg Johansen. Sei anni. Un viso rotondetto, capelli chiari raccolti in due treccine sottili e una bocca sorridente senza incisivi. Vestito bianco, con sopra una giacca, anch’essa bianca, e calze rosa che ricadevano formando delle pieghe sulle gambe magre. E le scarpe, che sembravano troppo grandi, con i calzini dal bordo in pizzo cadente. Adesso avrebbe avuto ventun anni.
La bambina era stata rapita con indosso proprio quei vestiti. La madre era un medico e si era allontanata giusto il tempo di fare un salto nel reparto dell’istituto a prendere qualcosa. Gli orti comunali si trovavano dall’altro lato della strada rispetto all’Istituto di salute pubblica dove lavorava. Aveva il suo ufficio in quella che veniva chiamata la Palazzina antica e si occupava di monitorare le malattie infettive. La strada tra l’ufficio e gli orti aveva due corsie per ciascun senso di marcia ed era molto trafficata. Come aveva potuto la madre lasciare la bambina dall’altro lato di una strada come quella?
Marian afferrò un ritaglio di giornale. Risaliva quasi esattamente a quindici anni prima.
«Aftenposten», 13 agosto 2001.
La polizia cerca la bambina di sei anni scomparsa nella zona intorno agli orti comunali di Geitmyra. Il cimitero di Nordre Gravlund, sull’altro lato di Kierschows gate, è stato di nuovo setacciato alla ricerca di indizi, ma anche questa volta non è emersa nessuna traccia.
Erano stati ispezionati i tombini nel raggio di un paio di chilometri, condotte azioni porta a porta, controllate accuratamente le telecamere di sorveglianza dei benzinai più vicini, verificate tutte le soffiate.
Un’altra foto cadde da una delle cartelline e finì sul pavimento. Marian la raccolse: erano la bambina e la madre, che si tenevano per mano. La bambina aveva qua e là delle chiazze di smalto rosa sulle piccole unghie. Marian era fortemente contraria a truccare le bambine. Ripensò al caso JonBenét, negli Stati Uniti, a quella bambina di sei anni truccata in maniera grottesca e agghindata come una bambola che era stata ritrovata morta nello scantinato di casa nel 1996.
Nella foto Annie Ormberg Johansen invece non era truccata e aveva delle piccole lentiggini sugli zigomi. Povera madre. Non sapere era devastante, non c’era niente di peggio. Sentì un piccolo sprazzo di gioia: magari poteva riuscire a risolvere quel mistero. Con ogni probabilità la bambina era morta, ma tutte le famiglie avevano bisogno di una risposta.
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Uscì dalla questura già all’una. Sentiva che per il momento doveva andarci piano con il lavoro. Lungo la strada fece la spesa; comprò le patate, il pesce e le verdure. Era da tempo che non indugiava così a lungo in un supermercato.
Arrivata a casa, controllò la cassetta della posta. Quando la aprì, cadde una lettera di richiamo dell’ospedale, ma la strappò in due. Non sopportava l’idea di fare altri controlli. Qualche sparuto raggio di luce penetrava dai vetri del portone d’ingresso e ricadeva sul pavimento a mosaico, formando delle strisce che risalivano fino ai primi gradini.
Marian si addormentò sul divano subito dopo pranzo e si svegliò due ore più tardi. Sentiva le labbra gonfie. Era come uscire da una specie di coma e si ricompensò con un sorso di gin e un caffè. Poi fece una doccia. Le pareti lucide la avvolgevano. Non era una perdente. Si chiese se fosse il caso di telefonare a Tønnesen, ma Cato aveva detto che sarebbe stato lui a telefonarle. Si rivestì, con un caldo maglione e i pantaloni della tuta, e continuò a visionare i documenti.
Gli orti scolastici di Geitmyra erano situati nel centro della città. Si trattava di un’area triangolare formata da vari appezzamenti, per un totale di circa quattro ettari. I lotti di terreno venivano ceduti in affitto a privati e al momento c’era una lista d’attesa di ben cinquecento persone. L’area era recintata da un’alta rete di filo spinato, con tre entrate, una a ogni angolo di quell’oasi. Confinava con il cimitero di Nordre Gravlund, da cui lo separava soltanto Kierschows gate. A est si stendeva Uelands gate e a sud Griffenfeldts gate. Nel giardino c’erano anche diverse casette e capanni, un fienile e un pollaio. E una piccionaia.
Myrtel Haug, la cosiddetta signora dei piccioni, era ancora l’amministratrice di quei lotti di terreno. Era l’ultima persona ad aver visto Thona. Il sospettato, suo figlio Glenn, aveva tendenze aggressive, stando a quel che dicevano i documenti. Marian cercò il nome di Myrtel Haug su Google. Era ancora indicata come l’amministratrice degli orti sul sito web di Geitmyra. Secondo i verbali degli interrogatori, Thona aveva bussato alla porta e la nipote della signora dei piccioni, la piccola Elly di cinque anni, era uscita per qualche minuto a giocare insieme a lei con una vecchia palla da dodgeball. Elly, però, aveva l’influenza e non si sentiva tanto bene, perciò era tornata quasi subito dentro casa. Dopodiché Thona era scomparsa. Quando la madre era tornata a riprenderla dieci minuti più tardi in quella giornata d’agosto, lei non c’era più.
*
Andreas li aveva sentiti discutere insieme all’esterno, sul marchingegno e su ciò che era in grado di fare. Qualcosa di atroce stava per accadere. Gli tornò in mente la casa dei genitori, con il salotto, la cucina, le camere da letto e il giardino. E il suo monolocale, piccolo e dipinto di fresco. Lui era il ragazzo dalle mani lunghe ed esili, il figlio unico che non ubbidiva agli ordini, neppure a quelli di sua madre; dall’età di cinque anni non era più riuscita a gestirlo e poi, quando lui aveva dovuto gestire se stesso, tutto era andato storto. L’uomo più piccolo aprì la porta. Indossava abiti normali. La camicia a maniche corte gli stava troppo larga e lasciava in bella vista le braccia villose. Gli venne in mente a chi somigliava: a un alpinista che aveva visto una volta in una rivista, quello sposato con Diana Ross. Anche lui un tempo aveva sognato di diventare alpinista. Se non fosse diventato un astronauta che viaggiava nello spazio. Non era una vittima casuale.