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Il primo uomo stava aspettando dietro un cassonetto della spazzatura. Sulla sua testa risplendeva la debole luce di una lampada da esterno. Il furgone, quello che poco prima era fuori dal supermercato, aveva lo sportello posteriore aperto. In cielo brillavano le stelle. E c’era la luna. Andreas si voltò per lanciare un rapido sguardo oltre il recinto, nel cortile di casa sua. La finestra che prima era stata aperta, adesso era chiusa. Gli diedero una spinta e lui finì dentro la vettura in caduta libera, andando a sbattere il naso sul fondo, tanto da sentir formicolare un dolore pungente lungo la fronte, fino all’interno del cranio. Gli afferrarono le gambe, le piegarono e lo spinsero dentro il furgone; poi richiusero lo sportello. Il tutto nel giro di pochi secondi. La sua morte era segnata.
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Forse il suo tesserino da poliziotta era in uno degli scatoloni in soffitta? Marian si alzò di nuovo, scese di sotto e si vestì. Per entrare in soffitta, doveva uscire dall’appartamento e salire i gradini che portavano alla porta quadrata chiusa con il lucchetto.
Dovette armeggiare un po’ per riuscire ad aprirlo e i cardini cigolarono quando schiuse la porta. C’era odore di marcio e di muffa, un’esalazione che la colpì non appena entrò. Accese la lampadina solitaria che gettava una luce smorta sul legno grigio, si lasciò la porta aperta alle spalle e si avviò carponi all’interno. Non si poteva fare altrimenti, tanto era basso il tetto alle estremità. Solo al centro di quella stanza polverosa poteva stare in piedi, ma gli scatoloni erano nella parte più profonda, dove il pavimento e il soffitto si incontravano. Sulla cima della struttura del tetto, lungo il bordo della trave centrale, c’erano grosse fessure, da cui entravano spifferi freddi. Il pavimento grezzo le procurava una sensazione sgradevole a contatto con i palmi delle mani ed era talmente sporco da rendere la stanza quasi inutilizzabile per riporvi le proprie cose. Nella zona più profonda c’era un vecchio nido costruito dalle rondini con paglia e fango, che però al momento era vuoto.
Nella parte che era dell’artista c’erano scatoloni pieni di malta e stucco. Aveva digitato il suo nome su Google: realizzava sculture, alcune piuttosto grandi, altre più piccole, per lo più di persone. Lassù Marian aveva riposto tre contenitori in plastica con dei vecchi vestiti e una scatola con dei documenti. Spinse via un rotolo di materiale isolante e aprì la scatola di cartone, si mise seduta e tirò fuori i documenti, ma non trovò il tesserino identificativo. Aveva una cordicella facile da scorgere, ma non lì non c’era. In ogni caso era scaduto e doveva essere rinnovato.
Richiuse la scatola e tornò indietro carponi. Nel mezzo della soffitta c’erano dei mucchietti di trucioli rosicchiati su cui erano sparse ali trasparenti di formiche morte, che svolazzavano qua e là in spirali quando il vento si insinuava tra le fessure.
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Se sollevava la testa, vedeva scorrere lunghe scie luminose di luci di auto e vetrine. Dai finestrini posteriori con i mezzi vetri, Andreas aveva scorto il guizzo improvviso dei fari anteriori di una vettura. Poi finalmente riuscì a vedere cosa c’era dietro di loro: l’immagine ingigantita e deformata del casco integrale dell’uomo più grassoccio, che seguiva il furgone a distanza ravvicinata con la sua motocicletta.
C’era un odore particolare nella macchina, come di carne putrida. Andreas sentì salire la nausea, ma se avesse vomitato sarebbe rimasto soffocato. Il sangue gli colava ancora lungo la gola. Prima di andare al supermercato, aveva caricato sulla propria pagina Facebook una sua foto con la bocca spalancata e aveva messo un “mi piace” sul post di due artisti che avevano dipinto una grossa immagine di Topolino. Cercava di capire che strada stessero prendendo. Il furgone aveva solo due sedili e una rete per il cane nella zona del bagagliaio. Ogni volta che curvava, Andreas avvertiva un dolore alla testa. I suoi genitori, che cosa avrebbero pensato? Quando avrebbero denunciato la sua scomparsa? Avrebbe dovuto essere al negozio di articoli sportivi la mattina dopo alle otto, ma non si sarebbero curati della sua assenza nei primi giorni, avrebbero solo pensato che fosse uno scansafatiche che aveva mollato il lavoro.
Il furgone si arrestò e un tram passò sferragliando. Poi proseguirono. L’uomo si voltò: «Stavo pensando di mettere un po’ di musica per noi due». Aveva una voce con un’intonazione metallica del tutto innaturale, come una bambola. Armeggiò con un CD e lo infilò nel lettore. Si udì una musica solenne. «Vivaldi. È un compositore, ma sono sicuro che tu non ne abbia mai sentito parlare», disse con tono svilente.
Quella musica gli provocò un disgusto immenso. Aiutandosi con la lingua, Andreas riuscì a far staccare dalla bocca una parte di nastro adesivo, che gli rimase appesa al labbro inferiore. In quello stesso istante, un violento singhiozzo affiorò alle labbra, come quello di un lattante che ha appena finito di piagnucolare.
«Sai cosa amo davvero di questa musica?». L’uomo ovviamente non si aspettava una risposta. «Che corre indietro nel tempo, ma non all’antichità. Accompagna semplicemente nel presente tutto ciò che è stato».
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Dopo il giro in soffitta, si era lavata le mani, strofinandole ben bene. I pantaloni li aveva gettati nel cesto dei panni sporchi e ora era di nuovo seduta sul letto in camicia da notte, a osservare il soffitto della torre con le sue finestrelle e la sua struttura finemente lavorata. Il legno poteva reggere per ottocento anni, era un materiale biologico che si rinnovava da solo. Igroscopico, come nelle antiche chiese medievali. Da lì vedeva il cielo in tutte le direzioni, come se il letto fosse una barca sul mare. Quando la luce della luna penetrava nella stanza, come in quel momento, i riquadri delle finestre creavano sul piumone dei motivi a croce, che proseguivano poi sul pavimento. Le stelle erano sparse ovunque nel firmamento, come impronte digitali. Pensò a quello strano fenomeno per cui le stelle che vediamo in cielo in realtà sono morte, estinte molto tempo addietro, ed ebbe una sensazione di déjà-vu, frammentaria e fredda. Una bambina era sparita in un orto comunale nel cuore della città, quindici anni prima. E se fosse stata ancora in vita? Sul tavolino da notte aveva una pila di libri. Guardò l’orologio: erano da poco passate le undici e mezza. Inviò un SMS a Cato. “Sono pronta per quel piccolo incarico”.
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Erano giunti all’altezza dell’autovelox vicino alla stazione centrale Oslo S. Il conducente rallentò e svoltò a destra, dove la carreggiata scendeva accanto all’Opera. Andreas vide la fila di grattacieli a forma di codice a barre tipica del quartiere. Quando entrarono nella galleria, chinò la testa e morse la manica della giacca, per non urlare. Le pulsazioni aumentarono. Il rumore fuori cambiò, amplificato dalle pareti della montagna. Andreas sentiva la pressione intorno alla fronte. Il conducente schiacciò l’acceleratore, diretto verso la zona dell’aeroporto di Gardermoen. In alto, le luci dei lampioni si accendevano a intermittenza.