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Marian sentì che il dolore tornava a martellare lungo la tempia sinistra. Poggiò il biglietto sul tavolo da pranzo e apparecchiò il tavolo del salotto con dei grandi piatti.
«Mangiamo qualcosa, poi discuteremo di tutta questa faccenda».
Mise in tavola quello che aveva: pane, prosciutto, un’insalata di patate già pronta e qualche fetta di pomodoro. Poi chiese: «Ti va un caffè?»
«È un po’ tardi. Forse un tè?». Annie si soffermò a guardare la pila di libri sul tavolo da pranzo. «Vedo che hai il romanzo di Knausgård. Ci sono delle frasi di una freddezza e di una sincerità talmente uniche che vanno a colpire nel vivo». Si alzò, prese il libro e lo aprì. «Leggi ad esempio le ultime righe».
«Le conosco a memoria», rispose Marian.
«Sei diventata un’amica per me, Marian», confessò Annie posando il libro. «Siamo così simili».
Era l’ultima cosa che Marian voleva sentirsi dire, perciò rispose: «Entro spesso in sintonia con le persone coinvolte nei casi di omicidio».
«Immagino sia strano vedermi piombare qui con questa storia del biglietto, vero? Tu non mi credi».
«Ma certo che sì. Scopriremo cosa c’è dietro». Marian aveva lavorato in polizia abbastanza a lungo da sapere che alcune persone si inventavano delle storie per risultare interessanti. Le risuonò in testa una canzone: Pericolo, pericolo, soldato. Sollevò nervosa la mano al collo. Al collo, non alla fronte, gesto che avrebbe potuto essere interpretato come un segno di sfiducia.
Annie lanciò un’occhiata verso la torre. «È davvero una casa particolare».
«Ci dormo lassù». Marian mise l’acqua a bollire e quando prese le tazze la colpì il fatto che fossero disposte in maniera tanto ordinata. Troppo ordinata. Non le sembrava di averle sistemate così bene. Avvertì di nuovo un senso di pesantezza nella testa. Mise le bustine del tè nelle tazze. L’effetto dell’alcol era svanito, perciò ormai non era più sotto la sua influenza. Prese la teiera e versò l’acqua.
«Devi credermi». Annie tornò a sedersi sul divano. «Quel nome, Joner, è giallo. Associo colori e figure ai nomi, ai posti, ai mesi eccetera, ma non pensare che sia pazza».
Marian posò di nuovo la teiera sui fornelli. «Non penso che tu sia pazza. Succede anche a me in questo periodo difficile».
«Sono un medico e in quanto tale mi attengo alle scienze. In questo caso si tratta di un fenomeno chiamato sinestesia».
Marian sfoggiò un sorriso spontaneo. «Capita anche a me, ma cosa c’entra con il biglietto?»
«Gustav Joner è giallo. Tendo a ricordare il colore, più che il nome in sé e per sé. Sono andata a casa, ma poi sono tornata indietro per prendere il biglietto».
«Aha, dunque mischi le percezioni sensoriali, non è così? Per te le parole hanno un sapore e i suoni, le parole e i nomi un colore. Per me i giorni della settimana e i mesi hanno delle collocazioni tridimensionali specifiche».
«Sei la prima che mi capisce. Ho lasciato la mia bambina in quegli orti, Marian, e adesso tutti i disegni a scacchi verdi e marroni mi fanno quasi uscire di testa. Tutte le tonalità di verde sono come veleno per me».
Marian abbassò gli occhi sulla sua maglia verde.
«Scusami», sorrise Annie. «Il nome Thona è rosso. In passato questo fenomeno veniva considerato una patologia. Le percezioni multisensoriali venivano classificate come un disturbo neurologico».
«Thona è rosso anche per me! Con questo non voglio dire che persone diverse vedano necessariamente le cose degli stessi colori». Marian si sedette sul divano vicino ad Annie. Si guardarono negli occhi e fu quasi come calarsi l’una nella disperazione dell’altra. Il biglietto era ancora sul tavolo da pranzo.
«Sai che gli autistici a volte sviluppano una forte tendenza alla sinestesia?».
Marian bevve un sorso di tè. «Sì, lo so».
Birka posò la testa in grembo ad Annie e Marian le guardò. Birka raramente si comportava in quel modo. Sapeva cosa pensava Annie: questo animale morirà presto.
Annie sospirò. «Capita che le persone che incontro per la prima volta mi chiedano se ho figli».
«E tu cosa rispondi?»
«A volte rispondo di no, a volte di sì. La maggior parte della gente non capisce come mi sento. Ho cercato di fare del mio meglio, ma non è stato abbastanza. Forse Thona era un po’ viziata. Non so se alla gente piacesse. Tu non vorresti dei figli?»
«No, ho il mio cane».
Marian sentì riecheggiare dentro di sé la voce di Elly. Thona non mi piaceva un granché. Mi faceva paura, raccontava che lo spaventapasseri era vivo e storie del genere.
Annie osservò Marian. «Joner è stato torturato. Per lo meno così mi è sembrato di capire dal telegiornale. Sai in che modo?»
«No, non seguo io il caso». Si alzò e andò a prendere il foglietto.
«Schavenius è un giudice della Corte Suprema», la informò Annie. «Ho fatto una ricerca su internet. Non sono stati pazienti del nostro reparto, né lui né Lindeberg né Joner. È stato il mio primo pensiero, che potesse esserci un collegamento, così ho controllato negli archivi, ma loro non ci sono e neppure ricordo di averli conosciuti di persona».
Marian lanciò uno sguardo in tralice ad Annie.
«Cosa ne farai del biglietto?». Annie deglutì. «Credo che sia una lista di uomini da uccidere».
«Ovviamente lo farò esaminare per controllare le impronte digitali», rispose Marian.
«Fallo al più presto. Credo che il giudice della Corte Suprema, Schavenius, sarà il prossimo».