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L’ospedale di Ullevål era formato da un complesso di edifici e non solo dalla storica costruzione centrale in mattoni rossi con la classica torre dell’orologio visibile dalla strada. Considerate le lesioni che aveva, il giudice doveva essere ricoverato nel reparto di terapia intensiva, che si trovava al secondo piano, sopra il pronto soccorso. Fuori dall’ingresso due pazienti stavano fumando, uno con un tutore al braccio. Sentì la nicotina bruciare nelle narici, ma una volta dentro l’odore del fumo e dell’aria fredda venne rimpiazzato da un calore clinico. Camminava come un robot. Erano le otto del mattino. Su internet c’era scritto che Schavenius era ancora in coma.
Nell’atrio c’era una stanza per cambiare i neonati. Vi entrò. Dentro c’erano un forno a microonde e delle sedie, tutto fatto apposta per i più piccoli. Appallottolò il cappotto e lo nascose dietro un contenitore per pannolini. La luce delle lampade a neon del soffitto si spense e si riaccese alcune volte. Aveva portato un camice da casa, così grande da poter inserire lo spray nella cintura dei pantaloni senza che si notasse. Si infilò in testa una cuffietta azzurra che somigliava a quelle usate in sala operatoria. Faceva tutto questo per loro. Il piano era unirsi a qualcuno che sarebbe salito con l’ascensore riservato al personale. Tutti i parenti che salivano con l’ascensore normale venivano infatti fermati prima di poter entrare dalla persona a cui volevano far visita. Era già stata in quel posto, un paio d’anni prima, quando la madre era molto malata. I pugili perdevano conoscenza più volte nel corso di un incontro e così si sentiva lei al momento. La medicina cominciava a fare effetto, si trovava in quella terra di confine dove tutto era possibile, in mezzo all’arena del circo, senza nessuna paura. Pensò ai concetti di onnipotenza, esaltazione, malvagità maschile e volontà di ristabilire la giustizia. Non doveva fare altro che salire con l’ascensore e trovare Schavenius, ma senza un tesserino originale non sarebbe potuta passare dal lettore. Quello che aveva appeso al collo era solo una messa in scena. Lo aveva trovato in una scatola accanto alla carta della fotocopiatrice, piena di cianfrusaglie come vecchie penne, pinzette, cartucce di colore.
Dopo vari giri a vuoto su e giù con l’ascensore del personale, trovò infine due infermiere che parlottavano tra loro e scendevano al piano giusto. Una delle due strusciò il tesserino e premette 2. Si sentì il risucchio dell’ascensore, l’aria sotto pressione. Sotto la luce metallica le facce delle infermiere sembravano malaticce. Anche il coltello Wayne Barton era infilato nella cintola sotto l’ampio camice. Le porte dell’ascensore si aprirono e fu colpita dall’odore di alcol e detersivo tipico degli ospedali. Doveva comportarsi come un domatore sulla pista di un circo, agire sotto gli occhi di tutti senza paura. Uscire alla luce e poi ritrarsi. Sperava che Schavenius fosse ancora in coma.
Il reparto di terapia intensiva era in fondo al corridoio. Vestita di bianco, con un tesserino fatto in casa intorno al collo e delle comode scarpe da lavoro dalla suola morbida, chiunque avrebbe potuto scambiarla per uno degli angeli che lavoravano in quel posto. I pensieri scorrevano freddi nella sua mente. Le due infermiere ciarlavano tanto da non accorgersi neppure di averla alle proprie spalle. Il cellulare le sarebbe stato utile, fingere una conversazione poteva servirle a togliersi d’impaccio. In quello stesso istante, però, le venne in mente che il cellulare era rintracciabile, ma quello che usava era intestato alla madre e nessuno avrebbe mai sospettato di una vecchia signora. E soprattutto a nessuno sarebbe mai venuto in mente di ricollegarla a quella faccenda. La stanza del personale era illuminata e dietro ai vetri quadrati le infermiere si muovevano, scambiandosi di posto. Su un grande monitor si vedevano le immagini di diverse stanze e i numeri digitali in cima mostravano lo scorrere del tempo. Nelle immagini i pazienti erano immobili, solo i movimenti di qualche infermiera interrompevano la tranquillità. Quella seduta davanti non alzava mai gli occhi dal cruciverba di un settimanale.
Naturalmente sulle porte non c’erano i nomi dei pazienti. In una stanza con delle grandi finestre che davano sul corridoio c’erano una donna e un uomo anziani. Era contenta di non avere figli; tutti i bambini prima o poi diventavano persone vecchie e sole. In quel momento le venne in mente che la polizia doveva essere di guardia da qualche parte nell’ospedale, a sorvegliare la porta che conduceva nella stanza della vittima. Il cuore prese a batterle più forte. La luce fuori dal bagno non funzionava. Forse avrebbe fatto bene a farci un salto, per calmarsi un po’ e infilarsi i guanti usa e getta.
Accanto al muro c’era un carrello metallico pieno fino all’orlo di lenzuola e asciugamani. Lo afferrò e cominciò a spingerlo, per usarlo come copertura. Lo stridore del metallo le feriva gli orecchi. Un lettighiere la salutò con un cenno del capo, mentre le passava accanto spingendo un letto. Il corridoio percorreva tutto l’edificio, come un quadrato. Si fermò e aprì una porta a caso. Dentro c’erano due donne. Nel punto in cui il corridoio curvava di novanta gradi a sinistra, rallentò e, sbirciando dietro l’angolo, vide che fuori da una porta c’era un poliziotto seduto su una sedia. Ovviamente non portava l’uniforme. Aveva gli auricolari agli orecchi, una felpa grigia con il cappuccio, jeans e scarpe da ginnastica bianche. Schavenius era stato localizzato.
Il poliziotto stava leggendo le notizie sul cellulare e le lanciò solo un breve sguardo in tralice quando sentì lo sferragliare del carrello, per poi riabbassare subito gli occhi. Quando gli fu accanto, estrasse la bomboletta spray e gliela spruzzò dritto in faccia. Il tutto avvenne con una tale rapidità da non lasciare all’uomo neppure il tempo di reagire. Tentò di alzarsi, ma scivolò lungo sul pavimento. Lei infilò di nuovo la bomboletta nella cintola, si chinò e lo afferrò sotto le braccia, come aveva imparato, trascinandolo verso una porta su cui c’era scritto SGABUZZINO, dove lo gettò. Poi spinse verso di lui il cellulare con il piede, si drizzò e lanciò uno sguardo lungo il corridoio.
Aprì la porta accanto alla sedia vuota e sbirciò dentro. Riconobbe subito il volto: dentro quella camera giaceva la balena, da solo. La luce della lampada del soffitto era soffusa. Fu colpita da un odore dolciastro e tiepido. La telecamera di sorveglianza era puntata verso il paziente e lei fece attenzione a tenersi fuori dalla sua portata. Accanto al letto c’era una flebo con del liquido e del plasma sanguigno. Su uno schermo blu delle curve gialle e bianche disegnavano un’onda regolare.
Il volto del giudice era gonfio e tumefatto, pieno di ferite scure, una delle quali scendeva dallo zigomo fino all’angolo della bocca. Gli occhi erano aperti e le labbra chiuse, le braccia ingessate. In una delle orecchie c’era del sangue raggrumato. Il piumino gli copriva il corpo, ma era tenuto sollevato dall’inferriata del letto, lasciando così intravedere il bacino bluastro e parte della coscia.
Era arrivato il momento. Fu attraversata da un brivido di freddo, ma non doveva permettere che le arrivasse alla mano. Gettò una rapida occhiata alla porta chiusa, poi estrasse il coltello, lo agguantò bene, tirò giù la cuffietta di plastica, chinò la testa per nascondere il volto e si avvicinò svelta al letto.
Nel giro di pochi secondi gli aveva affondato il coltello nella gola per tre volte. Il sangue prese a schizzare e scattò un allarme. Il macchinario con le curve luminose divenne nero e sullo schermo non rimase altro che un’unica linea verde.
Era fuori dalla stanza, il camice coperto di schizzi di sangue. Infilò il coltello nella cintola. Mentre passava svelta davanti al ripostiglio, la porta si schiuse e intravide il poliziotto, che stava riprendendo i sensi. Aprì una porta con l’insegna verde dell’uscita di emergenza e in pochi secondi si ritrovò fuori sulle scale. Mentre la porta si richiudeva, udì lo scalpiccio di piedi che correvano sul linoleum del reparto. Qualcuno urlò qualcosa, poi scattò un altro allarme, ma lei a quel punto era già scesa di una rampa. Si sfilò il camice, si tolse la cuffietta e tirò sopra la cintura la maglia nera che indossava sotto. Poi uscì dalla porta del piano inferiore e prese a sinistra. Poco dopo il corridoio svoltava a destra. Proseguì cauta con la spalla aderente al muro e con l’involto del camice, dei guanti e della cuffia premuto sull’addome, camminando piuttosto svelta, come se fosse stata una persona qualsiasi. Non sapeva in che reparto si trovasse. Le immagini le fluttuavano davanti agli occhi. Da un locale proveniva il rumore di un impianto di aerazione e sul soffitto scorse il sistema d’irrigazione antincendio e dei tubi che si snodavano in tutte le direzioni. Tutte le porte che tentava di aprire erano chiuse. Alla fine si ritrovò in una specie di anticamera, o forse sul retro di una sala operatoria. C’erano dei letti vuoti e due porte a vetri che conducevano all’interno. Dietro di esse vide un’infermiera vestita di bianco che le veniva incontro. Si voltò di scatto, afferrò il cellulare e fece finta di essere impegnata in una conversazione, il che funzionò fino a quando l’infermiera le arrivò accanto pregandola di rispettare il divieto di usare cellulari, perché alcune delle apparecchiature erano sensibili alle onde elettromagnetiche.
«Mi dispiace. Sono stata a far visita a mia madre», si scusò, restando per un attimo impalata, del tutto disorientata. «Dov’è l’uscita?»
«Laggiù». La donna in bianco le indicò una porta, che lei infilò. Si era di nuovo trasformata in un’altra versione di se stessa, la brava bambina che faceva come le veniva ordinato. Quando erano piccoli, i fratelli attiravano gli scoiattoli del bosco con noci o biscotti, per intrappolarli in delle reti. E poi li uccidevano. Quei piccoli roditori erano intossicati dal male, le dicevano. E adesso veniva di nuovo costretta a fare quel gioco.
Giunta nell’atrio, trovò rapidamente la strada per tornare al fasciatoio a riprendere il cappotto. Lo indossò e si infilò il fagotto con il camice sotto il braccio, per poi avviarsi in tutta tranquillità verso l’uscita principale.
C’era un gran via vai di gente. Scese i pochi gradini fino allo spiazzo del cortile e poi uscì in strada. L’elisoccorso stava atterrando proprio in quel momento sul tetto dell’edificio alle sue spalle. Il rumore del rotore era come un ronzio uniforme, ma le pale dell’elica fendevano l’aria come se volessero falciarla.