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Alle nove di lunedì cinque settembre Karsten Tønnesen si presentò finalmente nell’ufficio del seminterrato. Marian aveva preso il tram per recarsi al lavoro e Birka era rimasta a casa. Pioveva di nuovo e il suo ombrello era mezzo rotto. Lo psichiatra della polizia era un uomo magro e dal portamento eretto sulla settantina, con i capelli grigi dalla foggia indefinita. Tirò a sé la sedia e si accomodò proprio di fronte a Marian. La camicia di flanella a quadri e i pantaloni di velluto a coste démodé gli si addicevano. Parlava il dialetto di Arendal ed era ancora abbronzato.
A un tratto Marian sentì che quella situazione le provocava una fitta al diaframma. Di solito era estremamente efficiente, amava la stabilità, le abitudini e il lavoro, che era per lei la cosa più importante nella vita. Quel fine settimana, però, aveva bevuto troppo. Per questo non aveva preso la macchina. Una volta cominciato, non era più stata capace di darsi un freno. Aveva in borsa la bottiglia di gin, che avrebbe dovuto lasciare a casa. Con il piede, spinse la borsa sotto la scrivania.
«Non vedo l’ora di sentire cosa ne pensi, perciò direi di metterci subito al lavoro», mentì. Lei si era già messa al lavoro.
Tønnesen rifletté un attimo. «Spero che non sia un problema avere l’ufficio qua sotto. È un caso interessante e dobbiamo arrivare a una soluzione. I risultati sono l’unica cosa che conta», commentò raddrizzandosi con aria solenne.
Marian lo osservò. A lungo. Aveva delle larghe rughe bianche agli angoli degli occhi: doveva aver trascorso molto tempo all’aperto, con gli occhi stretti per il sole.
«Io qui sto bene», replicò Marian.
«Dobbiamo fare dei passi avanti nelle indagini, ottenere dei risultati».
«Decisamente».
Tutte chiacchiere a vuoto. A volte Marian si sorprendeva a provare disprezzo per gli uomini, un disprezzo che dipendeva dalle esperienze della sua infanzia, da come suo padre, troppo debole per ribellarsi, si lasciava maltrattare dalla madre. Forse Tønnesen sapeva che una volta l’Unità investigativa speciale aveva indagato su di lei. Quel pensiero le fece provare vergogna.
«Annie Ormberg Johansen non è su Facebook, il che sembra un po’ strano. Tu ce l’hai Facebook?».
Lo psichiatra scosse la testa.
«Neanch’io».
Tønnesen disse: «Dobbiamo far pubblicare un avviso sui giornali, fare in modo che la gente ricordi».
«Sono d’accordo, ma dovrai comparire tu nei media per parlare del caso. È un peso che non riuscirei a sopportare al momento».
Tønnesen annuì. «Va bene».
Marian si mise a rovistare in mezzo a delle carte, fingendo di cercare qualcosa. Una volta la caposezione l’aveva accusata di essere un genio e non lo aveva detto in senso positivo. I suoi metodi erano una specie di dichiarazione di guerra contro lo status quo, così si era espressa. Marian non rispettava le leggi e le regole. L’Unità investigativa speciale non era però riuscita a trovare nessuna prova contro di lei. Alcuni anni prima aveva ereditato qualche milione di corone da un poliziotto anziano che per lei era stato come un padre, ma niente di più. Erano entrambi persone sole e un po’ sui generis. Ma ormai non pensava più tanto spesso a lui, perché l’incidente le aveva tolto ogni forza. Aveva venduto la casa del poliziotto sei mesi prima di essere spinta nella fornace, affidandosi a un’agenzia immobiliare. E grazie a questo quella primavera si era potuta permettere di acquistare l’appartamento nell’antica casa in legno. Quando si era risvegliata dal coma, aveva visto sul monitor le linee delle sue funzioni vitali e insieme alla fame aveva sentito odore di fuliggine. In quell’istante aveva deciso di ricominciare da capo.
Tønnesen le chiese: «A cosa stai pensando, Marian?».
«A niente. Per lo meno ci eviteremo di partecipare a riunioni e stendere verbali a non finire. Il mio motto è: indaga l’impossibile e sii pronto a cambiare le tue convinzioni».
Lui la guardò. «È un buon motto. Ovviamente dobbiamo agire con raziocinio, anche se non sempre il raziocinio è un bene. Il primo caso a cui ho lavorato come psichiatra per la polizia riguardava la ricerca di una bambina sparita dopo la scuola. I genitori erano disperati; il padre in particolare era roso dalla paura e dal dolore, ma due settimane dopo trovammo il cadavere nella sua soffitta. Era davvero riuscito ad abbindolarmi. Così imparai a essere analitico, a fare un passo indietro, quando la ragione cominciava a prendere troppo il sopravvento. Troveremo un modo per collaborare», aggiunse poi. «Non sono un asso con i social, perciò mi chiedevo se te ne potevi occupare tu».
«Cato e la sua squadra non hanno fatto un lavoro molto accurato a suo tempo», osservò Marian. «Questa è la conclusione a cui sono giunta. Elly Haug non risponde né alle chiamate, né ai messaggi». A quel punto avrebbe dovuto fermarsi, continuare a restare sul caso, e invece aggiunse: «Desideravo una pistola quando avevo otto anni».
Tønnesen sorrise. «Certo che sei divertente. In tal caso hai trovato il lavoro giusto».
«Non serve a molto fornire temporaneamente armi alla polizia solo perché nella situazione attuale la società si sente minacciata. A me, tra l’altro, di armi non ne danno».
Tønnesen sorrise di nuovo. «È davvero un peccato. Si può ottenere molto anche solo con un giocattolo. Conosco bene tutte le relazioni che parlano di quanto sia difficile essere donna nella polizia».
Cercava di fare dell’umorismo, ma non gli si addiceva e tra l’altro non era quello che intendeva Marian, non voleva dire che era difficile fare la donna poliziotto. Tønnesen si era accorto che lei aveva bevuto?
La guardò. «Da quel che ho capito, ti piace usare delle scorciatoie».
«Scorciatoie? Sarebbe a dire?». Il cuore cominciò a martellarle nel petto, Tønnesen aveva un’aria tutt’altro che amichevole.
«Voci di corridoio». All’improvviso sul viso dello psichiatra comparve un’espressione di sopportazione umiliante. Non rideva più. Ma poi aggiunse: «Credo che noi due lavoreremo bene insieme. Perché non cominciamo facendo un salto da Myrtel Haug? Suo figlio era tra i sospettati».
«Ci sono stata venerdì», rispose Marian. «Passavo di lì per caso». Tønnesen non avrebbe certo potuto smascherarla. Era uno psichiatra, mica un veggente.
«Aha. E come si è comportata? Il figlio in fondo era solo indiziato».
«Myrtel Haug mi ha ricordato la mia mamma adottiva, che non mi piaceva».
Karsten Tønnesen fece spallucce. «Allora andiamo da Annie Ormberg Johansen».
«Sono stata anche da lei», replicò Marian. «Ma torniamoci pure insieme».