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Tenendo Leo per mano, la madre salì le scale che conducevano al primo piano, alla sede del Centro regionale di assistenza per l’infanzia e l’adolescenza. Nel vecchio corridoio dell’ospedale le pareti erano ingiallite. Era giovedì 22 settembre. Avevano di nuovo appuntamento con il dottor Brodahl, lei e Leo. Lui indossava un maglione bianco di lana a maniche lunghe, una giacca azzurra, dei jeans e delle scarpe da ginnastica un po’ troppo grandi. Il suo bambino. Nel parcheggio aveva raccolto dall’asfalto due foglie d’acero, che, se osservate da vicino, avevano una trama di venature ben evidenti, che Leo stava esaminando. Si sentiva gelare dentro. Era già stata in quel posto, ma al piano inferiore, nel Reparto d’emergenza psichiatrica, il giorno dopo che suo marito aveva scoperto quello che suo padre aveva fatto a Leo. Lei aveva avuto un esaurimento nervoso e l’avevano portata lì. Il personale le aveva consigliato di parlare con il dottor Brodahl e di portare con sé Leo per un consulto. E così erano lì per la terza volta. Aspettarono in corridoio.
Dalla finestra scorgeva le cime degli aceri del giardino sul retro dell’ospedale. Sopra la soglia, le chiome creavano una bella trama dai colori intensi contro il cielo grigio. Le foglie erano rossastre, arancioni e verde acceso, fini e raggrinzite.
Sentiva i tendini del collo irrigidirsi. Era come se una nuova consapevolezza si stesse facendo strada a forza nel cervello: i bambini che subivano violenze sessuali dagli adulti, potevano diventare a loro volta degli aggressori.
Le loro vite erano crollate come un castello di carte. Axel aveva sorpreso suo padre con Leo, ma il padre negava e non c’erano prove. Ora il medico specializzato in abusi infantili avrebbe cercato di aiutarli. Axel avrebbe preferito lasciar perdere, pensava che avrebbero dovuto semplicemente guardare avanti e che la cosa migliore per Leo sarebbe stata essere lasciato tranquillo e in santa pace. Lei invece voleva ascoltare il parere degli specialisti. Avevano coinvolto anche la scuola, cosa di cui si erano pentiti, perché era servita solo a peggiorare la situazione e Leo era stato stigmatizzato.
Dan Brodahl aveva i capelli screziati di grigio lunghi sul collo e un fisico corpulento, ma con un vago non so che di femmineo. Lei notò che aveva un’aria stanca, ma fu cordiale. Per lei quell’uomo era una specie di dio, perché il solo vederlo la tranquillizzava. Lo studio era bianco e spoglio, fatta eccezione per dei disegni infantili alla parete e un cappotto appeso dietro la porta. In un contenitore di plastica c’erano delle penne e un tagliacarte affilato. La madre si mise Leo in grembo e trattenne per un secondo le labbra sui suoi capelli. Il suo bambino profumava di mandorla.
Dan Brodahl accese un piccolo registratore. Quando pronunciò le parole Caso Leo Schavenius a lei venne da pensare al suocero, al giudice della Corte Suprema in pensione. L’immagine del suocero crebbe come quella di un orco. Era come la versione maschile di una matriosca russa: tutte le volte che uno la apriva a metà, ci trovava dentro un altro omino più piccolo. Non finivano mai, quegli omini. Quanto mai poteva rimpicciolire un uomo così grande e grosso?
«È difficile capirci qualcosa con i bambini», esordì la madre. «Ora Leo ha paura di tutti gli uomini». Guardò il dottor Brodahl. Gli occhi del medico erano venati di rosso. Probabilmente aveva delle lenti a contatto nuove. Nelle stanze con l’aria secca le lenti potevano andare rapidamente a irritare la cornea. Lei era optometrista, perciò tutto quello che aveva a che fare con gli occhi attirava la sua attenzione. «Come mai tutti gli studi come questo sono bianchi?», domandò.
«Trovi sgradevole che sia bianco?». Dan Brodahl la osservò con i suoi occhi rossi.
«Sì, lo trovo sgradevole».
«E secondo te di che colore dovrebbe essere questa stanza?»
«Non saprei, forse gialla».
Le mancava la suocera. Quando Leo era con lei, non poteva succedergli niente di brutto. E tuttavia era successo. Aveva pensato che sarebbero potuti fuggire, togliere Leo dalla scuola e trasferirsi in America, in un luogo che somigliasse alla Norvegia. Là però non c’erano abeti e gli aceri, quei grandi alberi fecondi, si chiamavano maple. Alberi come quelli potevano fornire un paio di chili di zucchero all’anno. Non avevano bisogno di molto: una cucina, un salotto, una camera da letto, qualche nuova amicizia, aria fresca e un po’ di zucchero.
«O verde», disse Leo, accartocciando le foglie d’acero in una mano.
«Qualche giorno fa Leo ha visto un ubriacone e non ha dormito per tutta la notte», proseguì la madre. «Ormai ha paura di tutti gli uomini».