72

Elly si gingillava con l’anellino che aveva al naso. Alla finestra pendevano le zampe dei piccioni legate con lo spago. La superficie del tavolo era viscosa. Attraverso il vetro vide che la nonna e Oda stavano trasportando insieme una grossa fascina di ramoscelli. Presto sarebbe stato novembre e allora sarebbe potuta cadere tanta neve da rendere impossibile proseguire i lavori all’aperto. Un po’ le dispiaceva, perché trovava piacevole potersene stare dentro casa in santa pace. Aveva appreso che la neve in realtà non era bianca, appariva così solo perché rifletteva tutta la luce del sole. Era come nell’incontro con l’ipnotizzatore, le cose non erano necessariamente come apparivano. Era questo quello che aveva cercato di farle capire?

Dopo l’ipnosi aveva avvertito un senso di calma, un nuovo modo di pensare. L’ipnotizzatore le aveva parlato a voce bassa e lei si era addormentata. Aveva sognato, ma continuava a sentirlo parlare. Aveva una benda di seta sugli occhi, perciò non lo vedeva. Ne aveva una anche lui, l’aveva indossata prima che lei si sdraiasse sul lettino. Era stato come ripensare a un sogno, a qualcosa che non era avvenuto nella realtà. I ricordi erano strani e illogici, perché avevano origine da una situazione in cui il cervello si era comportato in maniera illogica. Il cuore di Elly aveva battuto sempre più piano, finché lei non aveva avuto l’impressione che riposasse nella cassa toracica, come un pezzo di carne inerte. I ricordi non erano nitidi, erano lontani. Anzi, non erano neppure ricordi, ma sonno. E dal silenzio era emersa una verità che non le era estranea, ma nota. E da quella calma erano affiorati dei ricordi: il cielo era limpido il giorno in cui era morta Thona. In seguito era stata costretta a restare a letto ed erano venuti dei poliziotti a parlare con lei. Erano gentili, ma lei era spaventata a morte. Non aveva fatto niente di male, aveva detto la nonna alla polizia.

Non avrebbe mai dovuto mostrare la casetta a Marian Dahle. Qualcosa si era scisso dentro di lei il giorno in cui era morta Thona, come una montagna che si spacca in due. Ora però ricordava tutto quanto. Aveva avuto una gran paura della polizia, ma in fin dei conti aveva solo cinque anni. Avrebbero potuto arrestarla adesso? Dopo tutto quel tempo?

Era stata lei, infatti, a uccidere Thona quel giorno, spingendola nello scantinato della casetta. Ricordava di averla vista stesa là sotto, con la schiena rivolta verso l’alto e le braccia allargate. Il papà e la nonna erano infuriati e in preda all’isterismo. E al terrore. L’avevano strattonata e le avevano urlato contro. Lei si era addormentata con il viso affondato nel cuscino sporco dopo che Thona era morta. Nella cameretta del sottotetto l’aria era viziata e la notte aveva un odore del tutto diverso. Le sembrava di essere stata gettata nello spazio. Tutta la casa era piena di ragnatele e polvere.

Quella consapevolezza non le era giunta come uno shock, lo aveva sempre saputo, ma il suo cervello l’aveva respinta, sostituendo la verità con tante immagini d’interferenza. Di sopra, nella stanzetta dal tetto a spiovente, l’aria era compatta. Gli insetti cozzavano contro il vetro, le mosche crepitavano sulla soglia della finestra. C’erano anche tarme e falene, che sbattevano silenziose contro i vetri, ma alla fine erano costrette ad arrendersi e a diventare polvere sul davanzale. Il silenzio era insopportabile. Elly, stammi bene a sentire. Adesso ascoltami, Elly. Andrà tutto bene. Dopodiché era arrivato l’autunno. E poi l’inverno.

Quando aveva cominciato la scuola l’anno seguente, l’insegnante e un’infermiera erano state molto gentili con lei, ma lei aveva sempre la sensazione di portare un macigno sullo stomaco. Qualche giorno dopo la scomparsa di Thona, aveva preso l’autobus con la nonna ed erano andate in un caffè del centro. Da allora non era più successo. Poi aveva mangiato una pianta velenosa e avevano dovuto portarla all’ospedale. Aveva qualcosa che non andava agli occhi, non riusciva a vederci bene. Quella sensazione la ricordava con chiarezza. Dopodiché erano andate dalla sorella della nonna a Rælingen, dove aveva giocato con un’altalena appesa a un albero. Non ci erano più tornate. Gli anni passavano e lei aveva sempre la sensazione di arrivare in ritardo. Procedeva confusa brancolando da un giorno all’altro. C’erano la scuola, i vaccini, i compiti a casa, un ragazzo che l’aveva fatta sua nel bagno di un cinema. Lei lo aveva lasciato fare, ormai aveva quindici anni. Si era fatta un paio di amiche, che però alla nonna non piacevano, e le aveva perse. Poi si era trasferita a Trondheim. Prese con sé la tazza di tè e andò alla finestra della cucina. Dentro di lei si stava smuovendo qualcosa, si era messo in atto un processo. Come le aveva detto il cinese danese: «Lascia che il trattamento agisca, senza opporre resistenza, con serenità». E infatti c’era anche qualcos’altro. C’era qualcos’altro. E non avrebbe mai potuto chiedere alla nonna cosa ne avessero fatto lei e il padre della bambina.

*

Annie si svegliò alle otto e premette il viso sul cuscino per evitare la luce. La sveglia sul comodino ticchettava lenta. Si sentiva pervasa da una sensazione di spossatezza. Poi di colpo si mise seduta, con il sudore che le colava dalla nuca. Anche il giorno prima aveva esagerato con il vino.

Aprì il cassetto del tavolino da notte ed estrasse il certificato di nascita della figlia. Ogni tanto lo guardava. E il certificato di battesimo, con quel bel nome, Thona. Era un nome insolito, una variante antiquata di Tona, che significava tuono. Richiuse il cassetto con forza, si infilò un paio di jeans e una maglia grigia e coprì di nuovo le lentiggini con il trucco. All’inizio non riusciva a ricordare cosa la facesse sentire tanto inquieta, poi però le venne in mente: doveva andare dallo psicologo, il fratello di Margrethe. Aveva un appuntamento fisso il venerdì, ogni due settimane. E quella sera ci sarebbe stata la festa d’autunno.

Non aveva trovato un vestito, perciò avrebbe dovuto mettere la gonna e la camicetta bianca. Non aveva voglia di andarci, era così stanca. Ma doveva. Se non altro aveva delle belle gambe ed era passato del tempo dall’ultima volta che aveva avuto occasione di metterle in mostra. Sarebbe andata.

Un’ora dopo era a Majorstua. Parcheggiò l’auto e procedette a passo incerto lungo il marciapiede scivoloso verso il palazzo di Majorstuhuset. Le strisce di nevischio bagnato sui muri erano tempestate dal nero della polvere dell’asfalto. Si prevedevano temperature sotto lo zero per la nottata.

*

I locali della festa si trovavano nella zona dell’ospedale e potevano ospitare quattrocento persone. Era scontato che il salone dell’edificio A si sarebbe riempito. Vi erano stati trasferiti tutti i tavoli e le sedie. Un uomo sulla sessantina avrebbe suonato la tastiera. Si era già messo all’opera. Sembrava di stare sulla nave da crociera per la Danimarca. Il locale si riempiva lentamente. I dipendenti erano agghindati di tutto punto. Vedrete che stasera ci divertiremo.

Il bar provvisorio era nella parte più interna, un bancone alto e stretto, che aveva alle spalle due tavoli stracarichi di bottiglie. Tre giovani barman erano già tutti indaffarati a servire da bere. Qui però, a differenza dei soliti bar, la luce dei neon del soffitto era particolarmente intensa.

Annie e Fanny erano eleganti, come sempre. Persino adesso, in quel doloroso periodo di sofferenza, Annie era impeccabile. Aveva un aspetto dolce, in gonna e camicetta. Margrethe Moe sentiva i cerotti tirare sulle braccia sotto il vestito a maniche lunghe. Non aveva nessuna voglia di agghindarsi, odiava i vestiti. Ma più che altro era distrutta per la carenza di sonno. Il fratello aveva continuato con le accuse per tutta la notte. E lei aveva preso il coltello, tagliandosi ancora una volta le braccia. Il fratello l’aveva costretta ad andare alla festa, affinché niente apparisse anomalo o sospetto, perciò non era potuta mancare. Gli aveva detto che non aveva un vestito. Lui aveva deciso che si sarebbero visti in Bogstadveien nel pomeriggio, dopo la solita seduta con Annie. Così adesso, nonostante tutto, aveva un vestito nuovo, uno scomodo abito di una stoffa violetta lucida, scelto dal fratello. “Sai benissimo cosa succede quando vai a comprare i vestiti da sola”. Non portava tacchi alti, però, aveva i piedi troppo larghi per quel genere di scarpe. E dita troppo massicce per gli anelli.

Dan sembrava appena uscito dalla doccia e smarrito in un abito dai pantaloni troppo lunghi. I capelli erano bagnati sulle punte. Margrethe gli si mise accanto. Annie stava sorseggiando il drink di benvenuto.

«Tu non ne vuoi, Margrethe?»

«Devo guidare», rispose lei. «La strada per tornare a casa è lunga».

«Potresti restare a dormire da me», propose Annie.

«Grazie, ma devo andare a casa», replicò Margrethe.

La pista era stata lucidata, tanto da farla brillare, ma nessuno di loro avrebbe ballato, nemmeno quell’anno.

«Il grado d’ansia di una persona si può misurare dalla capacità di affrontare un ballo di coppia», commentò Fanny con una risata. Indossava un abito nero con delle decorazioni metalliche. I capelli erano, se possibile, acconciati in una maniera ancora più estrosa del solito.

Frank aveva dato a Margrethe un bigliettino scritto a mano, con il compito di consegnarlo ad Annie. Diceva: “Chiamami pure se non stai bene, Annie. Sono qui per te. Frank”.

Margrethe lo consegnò subito. Annie lo guardò, poi sgranò gli occhi, fissò per un istante Margrethe e lo infilò nella borsetta.

Trovarono un tavolo libero, lei, Annie, Fanny e Dan. C’era qualcosa nell’atmosfera di quella serata che suscitava in Margrethe una sensazione di malinconia. Marian Dahle si era recata allo studio del fratello. Aveva detto che era solo per discutere della situazione di Annie. La detective temeva per la sua salute mentale, aveva paura che potesse togliersi la vita. Era stata Margrethe a incitare Annie ad andare dal fratello. In realtà tra quei casi non c’era nessun collegamento, ma tutto a un tratto Margrethe sentì i nervi a fior di pelle. Marian Dahle non era certo una sprovveduta.

Il caso della bambina scomparsa
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