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Myrtel Haug sedeva nell’angusta saletta per gli interrogatori, sotto una luce squallida. Un agente aveva posato sul tavolo davanti a lei un bicchiere d’acqua. Myrtel stava aspettando. Erano quindici anni che attendeva quel momento. Non era mica fatta d’acciaio. E ora era lì, il momento era arrivato. Portava gli stivali di gomma ai piedi, i pantaloni da lavoro consunti e l’anorak macchiato di terriccio. Il sotto delle unghie era striato di terra; non aveva mai avuto le mani pulite, per quel che riusciva a ricordare. Ogni dettaglio di quella stanza suscitava un senso di disagio. Il buio all’esterno, le pareti in vetro che si affacciavano sul corridoio, dove vide passare dei poliziotti, benché fosse notte. Ne arrivarono altri, che procedettero dritto, come se non si fossero accorti della sua presenza in quella stanza. Ora l’importante sarebbe stato fare attenzione a ciò che diceva. Stringendo la mano intorno al bicchiere, osservò la propria immagine riflessa nella finestra. I capelli non lavati pendevano flaccidi intorno al viso stanco. Non voleva vedere la propria immagine nel vetro, perché i suoi occhi erano come laghi neri.
Marian Dahle entrò nella stanza con un caffè. E un registratore. Aveva i capelli bagnati e dei pantaloni che sembravano troppo grandi. Si sedette all’altro lato del tavolo. Poi arrivò un uomo, non quello alto dai capelli grigi, ma un giovane pivellino.
Marian Dahle accese il registratore e lesse la data e il suo nome.
«Hai diritto a chiamare un avvocato, Myrtel», la informò.
Myrtel corrugò le sopracciglia. «E perché mai? Io non ho fatto niente di male». Aveva la sensazione di essersi arresa molto tempo prima. Non del tutto, però. Vide balenare brevemente davanti ai propri occhi la bambina, stesa là sotto. «Certo, ci sono delle cose che non ho detto, ma c’è un motivo».
«E come puoi aspettarti che ti crediamo adesso?». Marian notò che il giovane agente la stava guardando. Avrebbe dovuto attendere l’arrivo dell’avvocato, ma non ce la faceva ad aspettare.
«Perché è stato un incidente», rispose lentamente Myrtel Haug. Poi sollevò il mento. «La spinse di sotto, dentro la botola. Non vorrete mica condannare una bambina di cinque anni?».
*
Margrethe Moe svoltò in Stormørkveien. Quando diceva alla gente dove viveva, loro esclamavano: «Lassù?!». «Sì, lassù», rispondeva lei, pensando alla foresta con il laghetto per pescare, ai prati acquitrinosi e agli abeti neri. Facevano passeggiate, a volte fino in cima, a Klovehøgda. Dobbiamo restare uniti in questa faccenda. Sentiva la voce del fratello dentro di sé, quella voce gelida e vuota. Ricordava quando era cambiata con la pubertà, lui era tutto gambe, con la testa troppo grossa. Lei si sentiva trapassare da quella voce come da uno strumento tagliente. Da piccola aveva avuto delle amiche, ma il fratello diceva: «Guarda che marmocchie assurde!». Margrethe le ricordava solo come figure di un lontano passato. Aveva sempre avuto paura del fratello e ne aveva anche adesso. Era una condizione che si portava dietro da tutta la vita, come una corda legata stretta intorno al corpo.
*
Annie udiva il proprio respiro. Stava fissando l’oscurità. Erano letteralmente nel mezzo della foresta. Era buio pesto, non c’era nemmeno un lampione, solo un fienile senza tetto. Nel fascio di luce dei fari spuntava una cassetta per le lettere su un palo, un po’ più avanti. Il ghiaccio si stendeva come uno specchio incastonato nelle pozzanghere. Margrethe si fermò nei pressi di una casa con una lampada esterna dalla luce troppo intensa. A metà del ciglio della strada gli pneumatici affondavano nella poltiglia nevosa. Annie vide il portone di un garage, grande e lucente.
Scesero dal furgone. Un cane stava abbaiando feroce.
«Il cane di Frank», spiegò Margrethe. Era già l’una passata.
Annie si lasciò condurre su per una piccola scala e oltre una porta marrone malmessa. Frank Moe era dentro, nell’ingresso. L’odore di arrosto, di fumo di sigaretta e profumo vecchio si era incollato alle pareti.
«Ciao, Annie», la salutò Frank.
Dopodiché fissò Margrethe, che passò oltre ed entrò in casa.
D’un tratto l’atmosfera sembrò tesa e minacciosa. «Hanno trovato Thona», disse Annie con un fil di voce. «È morta».
In quel momento scorse le due tute da motociclisti appese a un gancio. La moglie del vecchio giudice aveva raccontato al telegiornale di aver visto due motociclisti fuori dalla loro casa.
Non sarebbe mai uscita viva da lì. Margrethe l’aveva colta in flagrante nell’ufficio di Dan Brodahl. Ma la consapevolezza che Thona era morta era assai peggiore.