Capitolo 76
Ca’ d’Aumale, sestiere San Marco, domenica 19 luglio 1761.
Il giorno dopo, tre ore dopo l’arresto della contessa.
Tarda mattinata.
L’alchimista sistemò la parrucca e la marsina e si avviò al portale di terra del palazzo.
A quell’ora il rio che lambiva l’edificio era piuttosto affollato di gondole. Sulle fondamenta c’era un andirivieni di servette sfaccendate in cerca di compagnia e di gondolieri atteggiati a novelli libertini. Poco distante, un garzone di bottega spazzava i masegni davanti a una furàtola.
Raggiunto il grande battente di noce, Eliardo indugiò prima di azionare il batacchio. Strinse il vero Omphalos nella tasca della velada e si fece coraggio. Per quanto ci avesse provato, non era riuscito a salvare Annika dall’arresto. A nulla era servito che Grimaldi, sulla terrazza, le avesse mostrato il diasporo requisito da Van Axel invece della gemma che lei si aspettava. Certo, grazie a quel dettaglio e alle sue parole, lei aveva compreso che si trattava di una trappola e aveva fischiato, lanciando il segnale al suo cane da guardia. Ma era stato tutto inutile: alla fine a Murano gli uomini di Mellan l’avevano arrestata ugualmente.
Non era ciò che aveva pianificato, ma almeno era riuscito a tenere per sé l’Omphalos. Per fare ciò, aveva dovuto promettere un bel po’ di ducati a Grimaldi, che era l’unico che conosceva la vera pietra e l’aveva taciuto con i birri. Però ne era valsa la pena.
Si decise e bussò. Lo stridore netto del metallo risuonò nell’androne ma non fece tempo a sopirsi che la porta si aprì.
Vedere Rudolf fu un po’ come vedere Lucifero. Il gigante lo fissò di sottecchi da dietro la porta, evidentemente incerto sul significato di quella visita.
«Volete salvare la vostra padrona?», gli domandò Eliardo, mascherando il livore che provava per quell’uomo. Si costrinse a tenere un tono cordiale, che visti i loro trascorsi non era ciò che avrebbe desiderato. Ma aveva bisogno di lui…
Rudolf continuò a fissarlo, massaggiandosi la spalla a cui i birri avevano sparato. Diderot e Voltaire, accanto a lui, mugolarono.
«Mostratemi il marchingegno!», azzardò ancora, usando le stesse parole che Mellan aveva rivolto a lui. Sapeva di non avere molto tempo perché i birri, una volta interrogata Annika, sarebbero andati lì a Ca’ d’Aumale: certamente avrebbero voluto provare il loro diasporo, che probabilmente avevano già recuperato da Uçar. Se fosse andata così, si sarebbero accorti in fretta di essere stati raggirati.
Constatando che Rudolf non si muoveva ancora, Eliardo estrasse la mano di tasca e gli mostrò la pietra. «Adesso mi porti al marchingegno? Se c’è un modo per salvare la tua padrona è qui dentro».
L’omone, stupito, non se lo fece ripetere. Spalancò la porta e lo fece entrare. Con i passi che risuonavano cupi sul pavimento, fece strada nei diversi ambienti con mobili coperti da lenzuola bianche e infine raggiunsero il mezzanino. Lì, nel salottino affacciato sul Canal Grande, Rudolf si avvicinò a una credenza e con uno strano gioco di prestigio la fece scattare dal muro. Dietro si nascondeva una porticina e una scaletta che conduceva al seminterrato.
«Voi sapete come funziona?», gemette Eliardo, non appena si ritrovò nella penombra gravida di scaffali e alambicchi. Voltarono l’angolo alla luce di una lanterna e si ritrovarono al cospetto di un grande dispositivo, fatto di cavi, spolette, catenelle e specchi. C’erano lampade di ogni tipo e dimensione, posizionate ai lati e sopra la struttura di legno. Rudolf cominciò ad accenderle una a una e i loro raggi, riflessi da piccole lenti e specchi argentei, convogliarono la luce su una parete completamente bianca.
«Datemi l’Omphalos», grugnì deciso l’omone. Era la seconda volta che Eliardo udiva la sua voce, e gli ricordò quella di Caronte alle porte dell’inferno. Incerto, allungò la mano e consegnò la pietra a Rudolf.
Il gigante la posizionò cautamente su un alloggiamento in alto e in un secondo la parete bianca fu riempita di formule e iscrizioni in greco. Era come se la luce delle candele, rifratta dalle lenti, entrasse nella gemma e ne rivelasse il contenuto, proiettandolo sul muro di fronte a loro. Era dunque quello Il libro del destino di cui aveva parlato Van Axel?
Eliardo studiò per alcuni istanti le iscrizioni e poi si voltò verso il suo improvvisato nuovo compagno d’avventura. Rudolf, speranzoso, ora teneva in mano alcuni fogli di pergamena con tabelle vuote e una penna d’oca, che gli porse con insolita delicatezza. Se c’era un modo per liberare la contessa, anticipando le mosse dei birri, era in quelle pagine. L’alternativa era abbandonarla, e per un istante, soltanto uno, l’alchimista si ritrovò persino a considerarla. Ma il destino era un altro, ormai lo sapeva: fuggire con lei a Milano, Napoli, Roma o in qualunque altra città. E da lì ricominciare. Prima però doveva liberarla e con Il libro del destino davanti ai suoi occhi ora non gli sembrava una montagna così alta da scalare…
«Dunque», disse, sbattendo le palpebre nella penombra. «Di solito passo per un giovanotto abbastanza sveglio. Il futuro è scritto davanti a noi, dobbiamo solo capire come imparare a leggerlo».