Capitolo 31

Bacino di San Marco. Quello stesso giorno.

All’imbrunire.

 

Il ponte votivo allestito in occasione della Festa del Redentore era quasi completo.

Passando a poca distanza a bordo della sua bissona, Mattio Mellan poté osservarne la pregevole fattura: costruito con barche di ogni tipo, l’una accanto all’altra, costituiva una lunghissima passerella che attraversava l’intero canale della Giudecca. Anche in quel momento, con nuvole basse che oscuravano l’ultimo chiarore del crepuscolo, gli operai erano al lavoro, martellando e inchiodando travi.

«Credete davvero che questo turco sia in qualche modo collegato ai delitti?». Lodovico Van Axel, seduto di fronte al Missier Grande, aveva il dubbio disegnato in viso. Dopo aver fatto rapporto al capo del satellizio sull’esito delle sue indagini a palazzo dei Camerlenghi, si aspettava una reazione nettamente diversa da Mellan. La scelta più sensata, a parer suo, sarebbe stata quella di rintracciare immediatamente Beata Pinelli, la serva che pareva aver aiutato de Broglie a fuggire. Invece si trovavano a beccheggiare su onde inquiete, con otto rematori che a tutta velocità li stavano conducendo verso un mercantile sconosciuto.

«Come potete essere certo che la daga sia riconducibile a Uçar?», insistette il giovane.

Mellan, impacciato dal parruccone e dalla toga, contemplò prima la chiesa del Redentore e poi il suo giovane accompagnatore. «L’avete guardata bene, l’arma, Lodovico?»

«Bognolini è sicuro: la daga rimasta incastrata nel costato di Quintavalle è la stessa che ha ucciso anche Sandei. Un colpo di fortuna averla ritrovata…».

«Vi ho chiesto se l’avete guardata bene». Mellan svoltò il panno sistemato sulla panca. L’arma con la lama curva, oltre a essere di ottima fattura e avere un’impugnatura rivestita di pelle, presentava diverse decorazioni geometriche. «Cosa vi sembrano questi?». Indicò la punta, sfiorando il metallo con l’indice.

«Triangoli?».

Mellan sorrise e annuì. «Oppure rappresentazioni di piramidi…».

Van Axel si accigliò. Aveva notato anche lui quei disegni un po’ grezzi, ma non capiva ancora il nesso. «E questi disegni come hanno a che fare con il turco?»

«Non con il turco, Lodovico… ma con la sua nave». Spinta da un’onda, la barca ondeggiò a dritta. «Il nome dello sciabecco è Mısır Piramitleri, letteralmente “Piramidi egizie”. Ho collegato i disegni sulla daga solo quando il Doge mi ha suggerito di incontrare il turco».

A pensarci bene, le parole scelte dal serenissimo principe non erano state affatto casuali: «La daga potrebbe essere un buon motivo per parlare con Uçar», gli aveva infatti consigliato, raccomandando poi diplomazia. E forse, con quella frase era possibile spiegare anche il motivo per il quale Loredan aveva lasciato a lui l’indagine. La ragione era sempre stata in bella vista: il nome stesso degli inquisitori era tale da mettere in allarme. In quella circostanza era necessario quindi muoversi con le piume ai piedi, visto che c’era in gioco l’interesse stesso della Repubblica. Un interesse ancora un po’ fumoso in effetti, ma certamente – considerato il nome della nave – collegato in qualche modo ai delitti dei giorni precedenti…

Superato uno sciame di imbarcazioni in movimento, la bissona puntò verso sud e in pochi minuti avvistò lo sciabecco. Una volta annunciatisi ai marinai che lavoravano sul ponte, l’imbarcazione abbordò il veliero e i ministri di giustizia furono fatti salire con l’aiuto di una passerella.

«Sono l’armatore, Murat Uçar», si fece avanti, sussurrando appena, un omino tozzo e di bassa statura. Aveva il capo scoperto e indossava un caratteristico kaftan ottomano, lungo fino ai piedi e ricamato con filo d’argento. «A cosa devo l’onore della vostra visita?».

Se si aspettava che il turco fosse alto e biodo, come era stato descritto dai testimoni l’ottomano, Mellan rimase deluso senza darlo a vedere. «Sono il Missier Grande della Repubblica di Venezia», si annunciò, tonante. «Vorrei porle alcune domande».

Il turco socchiuse gli occhietti furbi. «Se non sono stato convocato nei vostri uffici, devo ritenere sia una visita di cortesia?»

«È così infatti. Avevo intenzione di mostrarvi un oggetto, per avere la vostra opinione».

Incuriosito, Uçar fece strada nella sua cabina. «Venite, mettiamoci comodi».

Appena si furono accomodati nel sontuoso ufficio che occupava l’intero cassero di poppa, Van Axel aprì l’involto nel quale era custodita la daga e lo poggiò sul tavolo.

«Bell’arma», esclamò il turco, chinandosi per vederla meglio. Sembrava sinceramente interessato. «Lama convessa e controtaglio a un quarto. Elsa cesellata. Decorazioni di pregio».

«La trovate in qualche modo familiare?», domandò Mellan a bruciapelo.

«Dovrei?»

«È stata usata per compiere due delitti in città», gli rivelò, più per saggiare la sua reazione che per formalizzare una vera e propria accusa.

«E giustamente, poiché è un’arma turca, voi avete pensato a me…». Uçar si fece beffa di loro. Era tranquillo, anche perché sapeva che a bordo della sua nave era perfettamente al sicuro. «Vi informo, Missier Grande, che non sono l’unico turco a Venezia».

«Forse no, in effetti, non siete l’unico turco in città», replicò Mellan. «Ma siete l’unico su un vascello egiziano».

«E con questo?»

«Non vi paiono delle piramidi, quei fregi accanto all’impugnatura?»

«Piramidi, dite?». Uçar diede appena una scorsa alla lama. «È possibile, ma ciononostante continuo a non capire cosa intendete insinuare; trovo sconvenienti le vostre domande, Missier Grande. Sia per me che per l’Impero».

Mellan prestò attenzione al linguaggio corporeo del turco. Era infastidito, certo, ma a meno che non fosse un bugiardo nato, non sembrava affatto che stesse nascondendo qualcosa. Si convinse che continuando ad affrontarlo frontalmente non avrebbe ottenuto nulla se non indispettirlo di più. Cambiò argomento. «Posso domandarvi la ragione per la quale siete a Venezia?»

«Yarrak kafa», sciorinò tra i denti, sicuro che l’appellativo “testa di cazzo” non sarebbe stato compreso dal suo interlocutore. Sorrise. «Prima mi accusate di chissà quale delitto e ora chiedete cosa un mercante fa nella vostra città?»

«Siete qui per vendere o per comprare?»

«Entrambe le cose!».

«Non mi risulta siate però riuscito a vendere il vostro carico in tre settimane».

«Aspetto l’occasione giusta».

Mellan glissò. Per prendere tempo e lasciare stemperare la tensione, si perse ad ammirare i numerosi oggetti di pregio che arredavano la cabina. Anche per un veneziano abituato a ori e stucchi, il lusso che trasudava quell’angusto spazio, fatto di candelabri, tappeti, quadri e turcherie, era disarmante. «Conoscete un certo Quintavalle?», azzardò, non appena ebbe l’impressione che il turco si fosse rasserenato.

«Mai sentito».

«Era uno speziale, e quella daga gli è stata trovata nel costato. Incastrata tanto in profondità tra le viscere che è stato necessario un chirurgo per estrarla».

Uçar scosse il capo, ancora offeso e sempre più insofferente.

«E Zuanne Sandei, il gondoliere di una certa contessa d’Aumale? Lo conoscevate?».

Per un istante il turco mutò il piglio. «Naturalmente no», si affrettò però a sottolineare.

«Ve bene». Con l’ultima risposta, il Mister Grande aveva avuto la consapevolezza che non avrebbe ottenuto null’altro da quel colloquio. Accennò un saluto e si girò verso la Giudecca. «È tutto. La ringrazio per la sua ospitalità».

Il turco però rimase immobile, seduto. Con studiata lentezza fissò Van Axel, che stava avvolgendo la daga nel panno. «Sapete cosa penso, yarrak kafa?».

Il Missier Grande si voltò senza rispondere.

«Penso che al posto vostro forse sarei venuto anche io qui». Indicò il fagotto tra le mani del capitano. «Se fossi davvero colpevole di qualcosa, però, non crede che eviterei di lasciare una spada siffatta nel corpo di un uomo?».